[Richiami] PAVEMENT, “Terror Twilight: Farewell Horizontal” (Matador, 1999/2022)

Le peripezie che portarono alla pubblicazione, nel giugno del 1999, dell’ultimo album dei Pavement, che si sarebbero sciolti pochi mesi dopo, al termine della tournée che tennero a supporto del disco, rivivono intense nella nuova, attesissima ristampa di Terror Twilight, sottotitolata Farewell Horizontal, ultima installazione nella serie di ripubblicazioni ampliate della discografia del gruppo, che arriva dopo oltre dodici anni di rumours. Queste ristampe, infatti, si erano interrotte improvvisamente nel 2008, quando uscì Brighten the Corners: Nicene Creedence Edition, ampliamento del loro penultimo disco in studio. Quando nel 2010 il gruppo si era riunito per una lunga tournée era stato dato alle stampe il greatest hits – se di greatest hits si può parlare per una band come i Pavement – Quarantine the Past. Ora, con una nuova reunion e un lungo tour in arrivo, questa uscita offre nuovi, illuminanti elementi per giudicare retrospettivamente l’ultimo capitolo della storia dei Pavement.

Quando nel 1998 Nigel Godrich, fresco produttore di OK Computer dei Radiohead e di Mutations di Beck, iniziò a lavorare con Stephen Malkmus e soci, nessuno immaginava che il lavoro che sarebbe nato da quella collaborazione sarebbe stato il disco finale dei Pavement. Il gruppo indie rock statunitense per eccellenza, che da Stockton aveva spostato il suo centro gravitazionale a New York, la band che in meno di dieci anni era divenuta un παράδειγμα (parádeigma) dell’idea stessa di lo-fi e di alternative, una formazione che più rifuggiva il successo (o, quantomeno, sembrava volerlo schivare) più otteneva plausi da critica e pubblico, questa stessa band, insomma, si accingeva a collaborare con un produttore britannico che rappresentava un’idea di perfezione sonora e che implicava un “budget” ben lontani dall’ἔϑος (éthos) del quartetto californiano, specialmente considerando, a posteriori, il tempo trascorso negli studi, talvolta pure costosi, a rifinire il lavoro. Godrich non conosceva di persona nessun membro dei Pavement né li aveva ascoltati dal vivo; era da sempre un super fan del gruppo, però, e questo fu sufficiente a dare un senso al progetto. È così che tutto ebbe inizio.

Le registrazioni del disco iniziarono idealmente a Portland, dove Malkmus viveva, prima che Godrich entrasse nelle vite dei Pavement. Di quei demo registrati a Portland con il gruppo, che avevano irritato particolarmente Malkmus, il quale aveva percepito che non si era raggiunto alcun risultato accettabile anche e soprattutto, a suo dire, per la scarsa chimica che in quei mesi correva entro la band, qui è inclusa soltanto una confusa “You Are a Light” incisa nei Jackpot! Studios. Imprevedibili e affascinanti sono alcuni demo di Malkmus, che testimoniano il processo creativo talvolta confuso ma sempre coraggioso e per certi versi dissacrante nei confronti dell’indie rock stesso attraverso il quale il cantautore marciava, un passo ulteriore verso la decostruzione della forma-canzone, che finiva per flirtare con il prog più rarefatto ed estremo. Perfetta fotografia di questa dimensione ibrida è “Terror Twilight (Speak, See, Remember)”, un concentrato vorticoso di cambi d’umore, di stile e di approccio.

Con l’arrivo di Godrich la band decide di spostarsi a New York, prima in uno studio della Lower Manhattan, l’Echo Canyon dei Sonic Youth, e poi in uno vicino al Washington Square Park, dove viene inciso il grosso del disco. Ciò che ancora non è ultimato viene completato qualche settimana dopo a Londra, ai RAK Studios, dove la band si dedica prevalentemente a voci e a overdub. Non tutti i membri del gruppo viaggiano in UK: alcune parti di batteria, per esempio, non sono eseguite da Steve West ma da Dominic Murcott e Bob Nastanovich, per esempio, ricorda di aver ascoltato la versione finale di “Major Leagues” soltanto quando ricevette il disco. Delle incisioni all’Echo Canyon sono inclusi sei brani, tra cui una lacerante “Jesus in Harlem”, versione ancora grezza e più incendiaria di “Cream of Gold”, mentre proviene dalle sessioni agli RPM Studios l’inedito “Be the Hook”, probabilmente il momento più intrigante e valido di questa ristampa.

A rendere accattivante la versione vinilica di questa uscita è anche la scelta di dare ai brani del disco originale rimasterizzato la sequenza che aveva pensato Godrich e che venne modificata dal gruppo prima che l’album andasse in stampa. Se non è particolarmente rivelatoria o rivoluzionaria – un momento di vera sorpresa è l’inedito “Shagbag”, uno strumentale di un minuto che conduce verso la conclusione dell’opera – rappresenta, però, un’esperienza nuova nella fruizione del disco, che in questa veste inizia con “Platform Blues” e “The Hexx”, due dei brani più disturbanti e spiazzanti del progetto, e si spegne con l’accoppiata “Speak, See, Remember” e “Spit on a Stranger”, quest’ultima il diamante pop vivido e ipnotico che invece apre il Terror Twilight ufficiale. Si vengono così a creare – era questo il piano di Godrich – due sides piuttosto differenti tra loro, una più ostica e ambiziosa, la prima, e una più “cantautorale”, commerciale e classicamente Pavement, la seconda, dove spicca anche la gemma “Major Leagues”, incastonata tra la graffiante “Folk Jam” e la divertente e fantasiosa “Carrot Rope”.

Nel suo formarsi e poi squadernarsi agli occhi dei suoi stessi autori e di chi a esso ha lavorato attraverso una pluralità di luoghi, di idee musicali e di concezioni artistiche e del mondo, Terror Twilight è un disco complesso e polimorfo, a tratti anche scombinato, e non è un caso che abbia coinciso con la conclusione della carriera in studio dei Pavement, che si sarebbero riuniti nel 2010 e poi, ancora, oggi, unicamente per tornare sul palco, quantomeno per ora. Malkmus non si sarebbe fermato: poco dopo era già al lavoro sul suo esordio solista. Nonostante ciò, la fotografia nitida e sincera dell’ultimo capitolo discografico della carriera dei Pavement rende chiaro come quell’attività artistica intensa e febbrile che ha dato vita a Terror Twilight sia stata condicio sine qua non per l’esistenza dell’opera, un passo anche involontario verso il vuoto e il futuro, conclusione gloriosa di un glorioso percorso.

(Samuele Conficoni)