[Cannes chiama Kalporz] Diario 23 maggio 2019

Ebbene sì, abbiamo saltato un giorno nel diario. Mi scuso, ma la responsabilità è oggettivamente da attribuire a cause di forza maggiore, che rispondono in maniera esatta a un titolo: Once Upon a Time… In Hollywood. Per vedere il nuovo film di Quentin Tarantino, infatti, ho dovuto affrontare una lunga e faticosa fila di tre ore e mezza di fronte alla sala Debussy che mi ha stremato. Ne valeva la pena, ovviamente, perché il film è una vera e propria meraviglia. Racconto di un paio di giorni a febbraio e di un terzo ad agosto del 1969 nella Mecca del cinema, il film di Tarantino è un divertente ma anche dolente viaggio nella finzione, nella rappresentazione di sé, nel cinema come elemento di salvezza in un mondo allo sbaraglio. Qui è stato accolto più freddamente del solito, ma il motivo è di chiara lettura: in un film così denso e stratificato Tarantino evita alcuni dei cliché più abituali del suo cinema, a partire dall’inserimento dei personaggi in uno spazio chiuso e dai dialoghi a raffica, destinati ad alimentare un culto. In Once Upon a Time… In Hollywood non c’è quasi nulla di tutto ciò, se non a sprazzi, e chi ha sempre letto le opere di Tarantino come un giocattolone (prendendo un’evidente cantonata) non potrà che trovarsi spiazzato e perfino deluso. Girato in 35 millimetri, è stato presentato in questo formato al pubblico di Cannes. Peccato che uscirà in sala solo in DCP.

Nella serata di Tarantino è poi stato presentato il secondo colpo di fulmine della giornata. Parasite è il settimo lungometraggio del sudcoreano Bong Joon-ho, e narra di una famiglia di sottoproletari (così poveri da vivere perfino in uno scantinato muffoso) che si ritrova, aguzzando l’ingegno, a lavorare per una famiglia abbiente in una lussuosa villa. Da questa commedia iniziale, anche spassosa, prende il via una stupefacente, spiazzante e dolorosa riflessione sul classismo della società, sulla guerra tra poveri, in un crescendo emotivo che lascia senza fiato. Difficile, molto difficile, non esaltarsi di fronte a un film simile, che coniuga grande intrattenimento a una riflessione mai banale sul capitalismo. Potrebbe andare a prendere qualche premio, anche tra i più importanti.

La giornata successiva ha invece portato con sé il diciannovesimo film diretto in oltre venti anni dal filippino Lav Diaz, alla sua seconda sortita sulla Croisette a distanza di sei anni dalla precedente. Alla Quinzaine è stato presentato The Halt, che ambienta nel 2034 una metafora palese dell’attuale stato della democrazia nelle Filippine, da quando è al potere Duterte. L’idea di partenza è brillantissima: a seguito di una terribile serie di eruzioni nell’arcipelago il sole non è più visibile e si vive perennemente nell’oscurità. Da qui parte un lungo e ramificato racconto, che si erge sopra le quattro ore e mezza di durata, che si pone come un vero e proprio pamphlet contro l’abuso di potere, la dittatura militare e l’ignavia della popolazione. Non uno vertici della filmografia di Diaz, ma un film potente, con alcune sequenze memorabili e un finale struggente da ammirare in un bianco e nero come al solito lavorato con sapienza. La giornata si è quindi conclusa su Wounds, film Netflix diretto dal bravo Babak Anvari: un horror senza troppe pretese ma ottimamente diretto e non privo di suggestioni. Perfetto per concludere una serata.

(Raffaele Meale)