THE CHEMICAL BROTHERS, “No Geography”, (Virgin EMI, 2019)

Per stabilire quali artisti abbiano ancora da dire la loro tra quelli che sono in giro da venticinque/trenta anni, uso in genere questa schiacciante (si far per dire) prova del “best of”. L’esercizio consiste nel domandarsi se la tal raccolta (che magari si era fermata, mettiamo, all’anno 2005) ci guadagnerebbe qualcosa da un’iniezione di materiale più recente. In certi casi, l’update potrebbe essere inutile, in altri criminale, volendo.

E poi ci sono quelli come i Chemical Brothers, per i quali l’aggiornamento in questione, per come la vedo, starebbe decisamente in piedi. Se ci fossero dubbi  inviterei a rimettere sul piatto quei dischi “recenti” come “We Are The Night”,  “Further” o “Born In the Echoes”. Così, per ricordarci di quanto siano sostanziosi questi che sono i loro album “di seconda linea”. E qui le virgolette stanno a intendere che non sono lavori deboli ma semmai un po’ “confermativi” o un briciolo comodi, forse. Di sicuro non superflui, ecco. Tra l’altro, ciascuno di questi titoli ha una personalità abbastanza delineata. “Further” è stato volutamente il meno mainstream della carriera, probabilmente. “Born In The Echoes” è stata una prova di “tenuta” con un ritorno al prestigio degli ospiti. Di sicuro questi dischi hanno seminato  singoli in grado di trovare spazio in quel best aggiornato, se uscisse oggi. “Saturate”, “Swoon” e “Go”, per semplicità e freschezza sono state tre canzoni  bomba capaci di svettare sui relativi album e vedersela in generale con la musica che intanto “andava”.

Ecco, man mano che venivano svelate le tracce di “No Geography”, la prima sorpresa è stata l’assenza, grosso modo, di un singolo di quella razza lì. E, sebbene possa suonare consolatorio, si può dire che un po’ della forza del nuovo album risieda proprio in questo. “No Geography” è un disco omogeneo che preferisce poche incisive voci femminili  (e classici spoken maschili) alle tante ospitate di lusso. È un lavoro che da una parte dribbla il rischio di ridondanze psichedeliche e dall’altra quello di facilonerie mid-eighties che in giro sentiamo. Resta nel binario classico dei suoi autori ma è capace lo stesso di dire la sua. Mescola qualcosa che ricorda il big beat che fu insieme a roba house, inserti disco e pop di oggi. Anche con cose etno funk, tipo la seconda traccia, “Bango”.

Storicamente, si diceva, la componente melodico-vocale è stata impiegata dal duo come ingrediente diversificante e mezzo di contrasto (Kele Okereke, Noel Gallagher, Saint Vincent, Richard Ashcroft, Bernard Sumner, Beck…). Qui è il contrario. La voce diventa una specie di legante (Aurora e Stephanie Dosen). I singoli quasi non servono, o per lo meno, non è su di essi che si gioca la partita. “MAH” e “We’ve Got To Try” non sono fondamentali. Invece, “Free Yourself” troverebbe uno slot in quel best. C’è anche una “Got To Keep On” che quasi quasi mi ricorda “Problèmes d’Amour” di Robotnick. Ma il punto è che “No Geography” va preso tutto. Lo si dice per tanti album, va bene, ma qui vale in modo letterale. E la conseguenza, sempre letterale, è che ascoltandolo si finisce in un altro tempo. Ma non per il discorso del big beat, intendiamoci! È piuttosto per questa necessità di ascoltare i 46 minuti in sequenza dritta che oggi vi saluto dal 1995.

78/100

(Marco Bachini)