EARL SWEATSHIRT, “Some Rap Songs” (Tan Cressida / Columbia, 2018)


Sono passati ormai più di dodici anni dalla morte prematura di J Dilla, ma il suo spirito guida aleggia in tantissime produzioni da quel maledetto febbraio del 2006. L’ultima imprevedibile reincarnazione aleggia come non succedeva da un po’ nel terzo album in studio dell’anima più scostante, innovativa e oscura della Odd Future che ha festeggiato lo scorso anno il suo decennale. Earl Sweatshirt ha sempre dato l’idea di mollare tutto per fare altro, si sono susseguiti lunghi sabbatici e contrastanti annunci su un ritiro precoce dalle scene. Eppure è ancora qui. Dopo il soggiorno studio forzato in Samoa di inizio decennio dove la madre lo spedisce preoccupata per il suo stile di vita nella matta crew di Tyler the Creator e affiliati, Earl ha pubblicato due album nel giro di tre anni, “Doris” e “I Don’t Like Shit, I Don’t Go Outside”.

In entrambi i casi mancano i singoli di facilissima presa ed emerge soprattutto un elemento. A Thebe Neruda Kgositsil non frega davvero nulla di compiacere pubblico e tendenze. Anche in questo “Some Rap Songs” che arriva tre anni dopo non troverete nulla di ciò che regna incontrastato nelle classifiche e nelle playlist Spotify. Non ci sono guest importanti, non c’è niente di trap e non ci sono i producer dietro alle hit degli ultimi mesi e anni. Lo aiutano Black Noi$e, Adé Hakim, Sage Elsesser, Denmark, ma il sound ormai è inconfondibilmente Earl. Mai incline al compromesso, coraggiosamente sperimentale e con intuizioni geniali e sconvolgenti.
Il disco ruota inevitabilmente attorno alla figura del padre, scomparso a inizio anno, l’influente poeta e attivista sudafricano Keorapetse Kgositsile (noto come Bra Willie) che è ospitato in “Some Rap Songs”, insieme alla madre, in alcuni sample vocali che introducono i brani, così come lo zio, il noto trombettista jazz Hugh Masekela, autore del sample nella traccia di chiusura “Riot!”. A livello compositivo, “Some Rap Songs”, è un avvolgente flusso di coscienza di ventiquattro minuti in quindici tracce molto brevi, ma fulminanti, come ci ha abituato Earl.
Tra campioni soul d’annata singhiozzanti e destrutturati e tappeti molto lo-fi che oltre al maestro J Dilla ci fanno accostare il ventiquattrenne (ricordiamolo, ha solo ventiquattro anni) ai grandi classici di Madlib e del suo celebratissimo progetto collaborativo con MF Doom, Madvillain, già al secondo ascolto si ha subito l’idea di avere davanti un capolavoro.

Nel primo vi risulterà difficile distinguere le tracce che scorrono come se fosse un unico mixtape di venticinque minuti, col tempo vi farete rapire facilmente dal minuto e mezzo alieno di “The Bends” che, a prescindere dal possibile tributo nel titolo ai Radiohead (che considera tra i suoi punti di riferimento insieme a MF Doom, RZA e C’mron), accoglie un sample di “After Loving You” di Linda Clifford. I sample soul, come detto, emozionano e illuminano i foschi scenari metropolitani su cui si stende il flow di Earl. Ce n’è un altro che resta subito nel cuore, quello della sognante “I’m Just a Shoulder to Cry On” nella versione di The Soul Brothers, ripescata in “Azucar” o ancora degli Endeavors di “Shattered Dreams”, da cui peraltro prende il titolo la traccia d’apertura. Tra collage interroti e glitchati e crescendo morbidi e ariosi (il break di “Ontheway!” è da lacrime), le parole e il timbro magnetico di Earl sono come al solito introspettivi, intimi. Non ci sono dissing, non ci sono messaggi politici, ma prevale una narrazione prevalentemente autobiografica dove il suono conta anche più delle parole e delle rime. Tra angoscianti suggestioni jazzy molto notturne e rarefatte e intuizioni old school da nipote del Wu-Tang, Earl Sweatshirt ci regala proprio a fine anno il classico disco di fine anno che sgretola ogni previsione e gerarchia. Sono solo alcune canzoni rap?
Per ora possiamo dire che “Some Rap Songs” è un disco senza tempo, maturo, intenso ed emozionante e ricercato di cui ci ricorderemo a lungo.

89/100