WYE OAK, “The Louder I Call, The Faster It Runs” (Merge, 2018)

I Wye Oak, Jenn Wasner e Andy Stack, ritornano a quattro anni dall’album della consacrazione – e svolta artistica – “Shriek”, e lo fanno con ancor più fiducia nei propri mezzi e un collaboratore decisivo quale John Congleton, forti di un pugno di grandi canzoni in bilico tra pop di stampo ottantiano e un rock dalle atmosfere malinconiche e sognanti. Quaranta minuti di musica in cui tutto suona perfetto e mai fuori dalle righe, centro emozionale la splendida voce della Wasner: “The Louder I Call, The Faster It Runs” segna un altro traguardo importante per il duo, cioè la raggiunta maturità.

Si parte nella disamina dai singoli estratti. Inevitabile visto l’ingegnere del suono coinvolto che la title track si avvicini nello stile alla St Vincent di “Cruel” (a conferma il riff math-rock che ne sostiene il chorus), mentre la piano-ballad “It Was Not Natural” ci rimanda tanto agli Eurythmics quanto ai Coldplay degli esordi. La stessa Annie Lennox e Kate Bush devono essere state notevole fonte di ispirazione per la crescita della cantante-chitarrista di Baltimora, a sentire la morbida e orchestrale “My Signal”. In “Lifer” e “You Of All People” le liriche sono confessionali, dichiarazione d’intenti: “I won’t reduce myself to air / Undo myself for your affair / I’ve shown you everything I am / You choose or not to understand” e ancora “They will make mistakes with us / Confuse the artist with their work / But I fear the message hidden there / The truth it hangs above our heads”. Magari ora sembrano più artificiosi e meno spontanei rispetto al passato, ma il successo non ha cambiato i Wye Oak; semplicemente le loro canzoni sono diventate universali – “Join” lo vedo oltre un titolo all’interno del disco una volontà implicita di allargare la cerchia di nuovi fan.

Nella bluesy “Over And Over” riaffiorano i Wye Oak di “Civilian”, più nervosi e densi di feedback, o anche nel rock elettronico e vorticoso à la Depeche Mode di “Symmetry”, ma volendo eleggere un brano rappresentativo dell’intero lavoro vado su “Say Hello”: nella strofa Jenn ricama una melodia vocale di grande fascino, retta dalla batteria shuffle di Andy e da un pattern sonoro al limite dello shoegaze, per poi volare altissimo al minuto 2:46 e ritornare sulla terra nel finale quasi sussurrato…Joni Mitchell, Portishead, American Music Club o chi volete voi: un’intensità di rara bellezza.

Il sesto album dei Wye Oak si pone a compromesso definitivo tra indie e mainstream, ma di certo vale la pena immergercisi e scoprirlo come una margherita a primavera.

79/100

(Matteo Maioli)