JACK WHITE, “Boarding House Reach” (Third Man Records/XL Recordings, 2018)

Quel genio e sregolatezza di Jack White è tornato e lo fa in grande stile con “Boarding House Reach” il suo terzo solo album. “I’m never gonna go where you want me to go … Listen up if you want to hear, and if you can’t stand it, then…” canta, quasi come a rispondere alle critiche di alcuni colleghi che non hanno condiviso la scelta di passare dall’analogico (di cui è sempre stato un purista), ad un copia e incolla utilizzando un computer per questo suo nuovo progetto.
“Boarding House Reach” è un album in qualche modo al di fuori di quello che ci si potrebbe aspettare da un artista che ha trascorso gli ultimi 20 anni ad esplorare variazioni sul tema rock-blues, personalizzandolo con una speciale peculiarità e complessità. White manda le regole a quel paese perché, diciamocelo francamente, quando mai quelli come lui le hanno seguite? Questo disco parla di modernità, di una disomogenea espansione della tavolozza musicale, di suoni nuovi ma a tratti sinistri.
Prendiamo “Corporation”. Può iniziare come un groovy degli anni settanta alla Sly e The Family Stone, ma presto si trasforma in una specie di afro-dance accompagnata da due riff di chitarra funk-rock. Il riffing cosmico continua sul funky schiacciante anni settanta di “Get In The Mind Shaft”, una collisione di voci elaborate, synth che ronzano uniti alle vibrazioni dello xilofono, regalando al sound qualcosa che ricorda un film di fantascienza.
Per lavorare al suo terzo progetto White si è tagliato fuori dal mondo, forte del fatto che mai come ora è libero di registrare ed incidere qualsiasi cosa gli piaccia. Ha portato con sé esclusivamente un registratore a 4 tracce e un vecchio mixer, che contro ogni aspettativa ha generato un suono pieno, ricco di personalità e originalità. Suono pieno come in “Over and Over and Over”, scritto originariamente per The White Stripes, è sicuramente il pezzo del disco dal suono per noi più familiare, con quel tipo riff feroce che caratterizza il suono di Jack da decenni, le chitarre pesantemente compresse e distorte dai ritmi funk dagli intenti bellicosi e cori dai toni isterici ed inquietanti.

Sull’onda rock “Connected by Love”, una perfetta fusione tra il tradizionalismo whiteano con l’elettronica del 21° secolo in cui la voce di accompagnamento gospel è fortemente influenzata dall’organo soul del sud, per una melodia potente dal messaggio universale. Non abbandona la sua vena ironica sfoggiata in “Why Walk a Dog” che vuole essere una parodia, caratterizzata dalla voce a singhiozzo di una ballata blues malinconica: “Are you their master? Did you buy them at the store? Did they know they were a cure for you to stop being bored?”. Un patchwork di bip elettronici, pianoforte discordante apparentemente improvvisato e stridii distorti di chitarra di “Hypermisophoniac”, introducono il rap (si avete letto bene) di “White in Ice Station Zebra”, che prima fa la rima “yo” e poi si lascia andare ad una “sonata” di piano alla Stevie Wonder. Tutto finisce con l’elegante ballata “Humouresque”, influenzata dall’omonima opera del compositore boemo Dvořák, con il romantico testo dolce e poetico. Un piano solo che accompagna la voce sommessa che sembra cantare una ninna nanna per bambini. È il tipo di cosa che solo Jack White, tra i suoi colleghi, potrebbe tirare fuori dal cilindro senza sembrare banale.
Ma un genio e sregolatezza è colui che, capace di avventurarsi in territori musicali ancora inesplorati – non curandosi del giudizio altrui né si soffermandosi sul sound più accattivante per ottenere consensi – va oltre la consistenza filosofica della musica intesa come organizzazione di suoni, rumori e silenzi nel corso del tempo e nello spazio, perché la sua è semplicemente una forma d’arte. Potere all’arte dunque. Potere a Jack White.

78/100

(Simona D’Angelo)