GUIDED BY VOICES, “Space Gun” (Rockathon Records, 2018)

A un certo punto diventa difficile non solo stare dietro Robert Pollard e i suoi Guided By Voices, ma pure dare una valutazione definita e esclusiva a ogni suo disco. Robert Pollard ha sessant’anni e ha messo assieme in totale più di 100 pubblicazioni; solo nel 2017 i GBV hanno pubblicato ben due LP: una attività che definire prolifica è poco e che stando ai rumours per quest’anno dovrebbe limitarsi a questo solo album intitolato “Space Gun” e in uscita il 23 marzo per la Rockathon Records (che poi sarebbe l’etichetta di Pollard). Il fatto che questo artista sia così produttivo comunque a mio parere non costituisce affatto un aspetto negativo o che rende ogni suo nuovo lavoro qualche cosa di trascurabile. Per quanto possibile, personalmente, cerco sempre di ascoltarli tutti e in nessun caso mi trovo poi davanti a qualche cosa che non sia almeno una buona botta di adrenalina. Poi è chiaro che la qualità complessiva possa essere variabile di caso in caso e che non sempre ogni disco sia destinato a rimanere non solo nella “storia della musica”, ma in fondo di questo secondo me il primo a non curarsene è proprio Pollard.

Il fatto è che questo artista incarna alla perfezione tutto quello che significhi alternative-rock: la sua super-produzione non ha tanto un significato specificamente artistico, come volere in qualche modo definire una “opera”, ma è invece una specie di attivismo. È sinonimo di vivacità intellettuale (ma anche artistica ovviamente) e in qualche modo essa stessa parte di un percorso ideologico e che ha persino finalità educative. In questo senso recensire “Space Gun” vuol dire mettere assieme un altro tassello di un puzzle più ampio. Nel disco ci sono quindici (quindici!) canzoni inedite registrate con la stessa band con cui i GBV hanno portato in tour il precedente album “August By Cake”. Ci sono quindi tanto membri storici come Doug Gillard e Kevin March quanto i nuovi arrivati Mark Shue e Bobby Bare Jr.: una combo che sembra funzionare alla perfezione e riuscire a stare dietro l’irrefrenabile carica di Pollard, anche perché come al solito ci troviamo davanti a composizioni fulminanti e di breve durata e che a tratti tra momenti più pop e altri che hanno anche una certa caratterizzazione drammatica, raggiungono cime quasi trionfali.

Il disco guadagna punti ad ogni ascolto: fino a dove potrà arrivare nelle vostre classifiche di gradimento è difficile da stabilire con esattezza (personalmente tra le pubblicazioni più recenti lo metto un gradino sotto rispetto a “Of Course You Are” di Pollard del 2016 e il già menzionato doppio LP “August By Cake”) ma non ci sono dubbi che, una volta cominciato ad ascoltarlo, non smetterete per un bel po’ di tempo.

72/100

Emiliano D’Aniello