MGMT, “Little Dark Age” (Columbia, 2018)

Sembrava che gli MGMT dopo il magico biennio 2007/08 avrebbero seguito un percorso quasi già tracciato. Piuttosto scontato che avrebbero gestito il tragitto da “Oracular Spectacular” in avanti con meno clamore ma senza diventare noiosi. D’altronde se uno sa (re)inventare il falsetto prince-sco di “Electric Feel” non può temere l’oblio e neanche l’inaridimento della sua vena produttiva. Sarebbero andati oltre quella moda di stracci, oltre myspace, oltre i nomi di band senza vocali (d’altronde in origine erano The Management). Avrebbero cercato un’altra “Kids”, l’avrebbero trovata più volte e sarebbero invecchiati degnamente tra mainstream rock e Coachella. Questo sembrava. Invece Goldwasser e VanWyngarden hanno preso un’altra via, volontariamente e in modo convinto.

I due album successivi hanno evitato il crinale pop come la peste, con una certa spocchia ma anche con molto rigore, va detto. E tanto rispetto è stato comunque tributato a “Congratulations” del 2010 (poi anche il meno apprezzato omonimo del 2013 non è che fosse indegno). C’era dunque la voglia di svincolarsi, di dimostrare che non erano una synthpop band (cosa evidente dall’inizio, peraltro), di certificare che una sorta di scena non li avrebbe mai fagocitati. E poi però anche qualche presunzione, come credere di saper ricavare il massimo dalla materia prog psichedelica mettendoci dentro più schemi che follia.

Poi, oggi, arriva un quarto album (quarto escludendo la fase pre-Oracular) anticipato da una serie di pezzi che debordano di sintetizzatori, collaborazioni, slittamenti di genere e di riferimento temporale. E “Little Dark Age” è tutto ciò che gli MGMT non erano stati in questi dieci anni lunghissimi. È gioco, nostalgia, azzardo, ingenuità e teatro. È un flipper di ritagli ipnagogici, movimento di fianchi, trucco dark e adolescenza VHS. C’è dentro la parte più vitale di “Oracular Spectacular” con la collaborazione di gente come Dave Fridmann (una conferma), Patrick Wimberly (pilastro dei rimpianti Chairlift) e pesi massimi della scrittura pop obliqua come Ariel Pink e Connan Mockasin. “Little Dark Age” è ragionato e calibrato ma è sopratutto irrigato da un’epica quasi infantile (in senso buono e anche quando parla di morte). Non replica più di qualche ingrediente di quel vecchio album, eppure i corrispettivi umorali ci sono quasi tutti: “One Thing Left To Say” ha la connotazione barocca e maestosa di una “Time To Pretend”. “TSLAMP” ha un ritornello di stampo Air e francesista in una strofa che si muove come le onde basse in un mare rocksteady. Gli MGMT vanno anche in casa degli ultimi Tame Impala a riprendersi quel che un po’ gli appartiene (“Hand It Over”). E c’è poi questa canzone che si chiama “Me And Michael”, probabile oggetto di discordie: a seconda di che luce la investe sembra di opaca leggerezza electropop o di scintillante emotività (post)adolescenziale (come solo “Kim And Jessie”, targata M83).

Sarà l’entusiasmo per un disco denso e inatteso ma tendo a guardare questa e le altre tracce sotto la luce forte che nei film accompagna i ricordi in slow motion. Di recente ho risentito “Kids” nel buio di un locale e vedevo brillare le facce e le mani della gente che ballava, fotogramma per fotogramma.

85/100

(Marco Bachini)