Fleet Foxes, Fabrique, Milano, 10 Novembre 2017

Chissà se Robin Pecknold era cosciente di cosa rappresentassero i Fleet Foxes per migliaia di fan sparsi in giro per il globo, quando nel 2012 decise di iscriversi alla Columbia e mettere in stand-by il progetto da lui ideato.

All’epoca la band originaria di Seattle era all’apice del proprio successo, dopo aver pubblicato nel giro di soli 3 anni due album stellari (“Fleet Foxes” e “Helplessness Blues“), che l’avevano proiettata nell’olimpo della scena indie folk. In particolare, l’esordio omonimo metteva in fila un capolavoro dietro l’altro, tanto da meritarsi un posto d’eccezione in ogni retrospettiva degna di questo nome sui migliori dischi del primo decennio degli anni ’00. Eppure, Robin, dopo il maestoso seguito di “Helplessness Blues”, sentiva il bisogno di mettere al centro della sua vita qualcos’altro, mentre tra gli altri membri cardine della band c’era chi emigrava in Giappone (il polistrumentista e co-fondatore Skyler Skjelset) e chi, come Josh Tilman, si scopriva eccezionale cantautore e crooner, indossando le vesti di Father John Misty.

Ed ora eccoci qua a celebrare al Fabrique di Milano la seconda data italiana (dopo Ferrara quest’estate) dei nuovi Fleet Foxes. Il recente “Crack-up” ha raccolto perlopiù recensioni positive, anche se non è mancata qualche critica a un approccio che per molti risulta datato.
La realtà è che a Robin Pecknold non interessano le mode, né svolte in linea con l’attuale Zeitgeist (Bon Iver insegna…). Al centro della sua idea di musica resta la ricerca di un suono puro, che mette ancora oggi in primo piano, nonostante alcune variazioni sul tema, complesse stratificazioni chitarristiche ed elaborate architetture melodiche, atte sempre e comunque a riprodurre armonie cristalline.

L’esibizione milanese, in un locale piuttosto gremito, restituisce il dipinto a colori accesi di una band viva e vegeta, che riesce spesso ad emozionare. La voce del frontman si fa strumento a sé stante, piombando giù dal palco dritta addosso ai presenti, in tutta la sua forza e limpidezza. E pazienza se i brani del terzo disco suonano per forza di cose meno illuminanti (eccezion fatta per la splendida “Third Of May/ Ōdaigahara”), l’esecuzione perfetta e l’epicità dei pezzi più celebri è più che sufficiente per uscire dal locale felici.
La gioia per le perle “Mykonos”, “White Wynter Hymnal”, “Blue Ridge Mountains” e la finale “Helplessness Blues” è reale, anche se a rimanere impresso sarà probabilmente il primo bis, che vede Pecknold intonare una splendida versione voce-chitarra di “Oliver James”.

Forse non torneranno al centro dell’attenzione della stampa di settore, né alla guida di un movimento (quello neo-folk) che ha da tempo passato i suoi giorni migliori, ma i Fleet Foxes mostrano dal vivo di non aver perso nulla di quello che ce li aveva fatti amare tanto, ormai quasi un decennio fa. E ai veri fan questo basta e avanza.

(Stefano Solaro)