DIRTY PROJECTORS, “Dirty Projectors” (Domino, 2017)

Sono già passati cinque anni da “Swing Lo Magellan”, sesto capitolo di uno progetti musicali più originali del nuovo decennio. Nel frattempo Dave Longstreth è tornato a essere l’unico titolare della creatura Dirty Projectors (protagonisti della nostra cover di Febbraio) da lui plasmata ormai quindici anni fa. La prima grande novità è infatti l’abbandono della partner e vocalist, l’ammaliante Amber Coffman che si è rituffata nella sua carriera solista. Il settimo album omonimo dei Dirty Projectors ruota tutto attorno alla ricerca vocale di Dave che di recente si è trasferito dalla sua Brooklyn a Los Angeles, dove ha allestito un suo studio, in cerca di nuove contaminazioni musicali sempre molto variegate e imprevedibili. Tra le sue fonti di ispirazione ha menzionato infatti lo scrittore norvegese Karl Ove Knausgård, Joni Mitchell e Drake. Un avvicinamento al mondo r&b – non nuovo se si pensa a brani come l’ipnotica “Stillness In The Move” dal clamoroso “Bitte Orca” del 2009 – che è testimoniato dalle sue recenti collaborazioni. In questi anni di apparente silenzio, Longstreth è stato coinvolto da Rick Rubin come architetto della hit FourFiveSeconds dell’inedito trio formato da Paul McCartney, Rihanna e Kanye West e ha lavorato a cinque tracce dell’ultimo celebrassimo capolavoro di Solange, “A Seat At The Table”. La sorella di Beyoncé ha ricambiato il favore scrivendo con lui in quelle sessioni di registrazioni “Cool Your Heart”, ultimo dei quattro singoli ad anticipare l’atteso ritorno dei Dirty Projectors, e unico brano con una voce femminile, quella di un’altra Dawn (secondo nome anche di Amber Coffman), la stella r&b tornata di recente in auge, Dawn Richard.

Ma, voce di DAWN a parte, la deviazione r&b , paradossalmente, si percepisce meno in questo brano dal tipico incedere avant-caraibico caro ai Dirty Projectors, che in altri brani del nuovo disco. Prima di questa erano arrivati altri tre assaggi: “Keep Your Name”, distopica soul ballad tra stranianti autotune e improvvisi scossoni quasi rappati, e le più canoniche “Little Bubble”, toccante soul sulla scia dell’ultimo album, con elettronica, archi, rhodes e tromboni nel loro stile, e i sette minuti di intenso manierismo di “Up In Hudson”. Il suo incantevole timbro vocale continua a funzionare anche senza quelle armonizzazioni femminili che lasciavano senza fiato negli ultimi lavori. La sua voce è al centro delle composizioni, ma non c’è solo questo. Tra i collaboratori di lusso spiccano il polistrumentista nerd dei synth modulari ed ex frontman dei Battles Tyondai Braxton, il percussionista brasiliano Mauro Refosco, l’amico e collaboratore e “designer narrativo” di Kanye West, Elon Rutberg ai testi e al video di “Keep Your Name”, il “senatore” Jimmy Douglass al mixaggio (già tra i credits, non a caso, di Timbaland, Jay Z, Kanye West, Justin Timberlake, Missy Elliott), il batterista dell’ultimo album Mike Johnson, il bassista di Solange e Blood Orange, David Ginyard, e il compositore elettronico Ryan Beppel. Ad arricchire il tutto le incursioni da una costa all’altra di quartetti d’archi newyorkesi e fiati da Los Angeles.

In “Death Spiral” e in “Winner Take Nothing” la voglia di r&b si spinge fino in fondo e i suoi falsetti strizzano idealmente l’occhio a Justin Timberlake, o per restare su nomi più recenti, a The Weeknd e Miguel. Così come, in parte nella spiazzante “Work Together” guida i suoi falsetti in scenari inediti dove la ricerca si sospinge come mai nel resto dei brani verso gli inesplorati territori delle nuove avanguardie techno latinamericane. Una virata che potrebbe avvicinare qualche vecchio seguace a queste sonorità (si pensi a quanto successo in termini più moderati con l’ultimo Bon Iver), oppure allontanare i vecchi seguaci dai Dirty Projectors. Ma poco importa perché l’attualità del sound e la solita egregia cura degli arrangiamenti colpisce e avvolge già a primo ascolto, continuando a emozionare e strappare via il cuore. Gli ubriacanti e repentini cambi di tempo “prog” che avevano fatto la fortuna di “Bitte Orca” ritornano in “Ascent Through Clouds”, brano più artefatto e complesso della raccolta, un mix di riferimenti tra visioni future-pop, momenti classici, tripudi di autotune e anarchia espressiva molto Kanye West, destrutturazioni elettroniche e coito interrotto house conclusivo. Ci pensano i sei minuti conclusivi di “I See You” a riportare tutto parzialmente nei binari del pop dissonante dei tempi di “The Getty Address” e “Rise Above”. Sempre al passo coi tempi con un passo avanti verso il futuro.
“Dirty Projectors” suona come dovrebbe suonare un album pop nel 2017.
Quando buona parte delle cose che ascoltate oggi tra qualche anno suoneranno così, ricordatevi di questo disco.
E non vi sembrerà poi così strano.

87/100

(Piero Merola)