FRANK OCEAN, “Blonde” (Boys Don’t Cry, 2016)

blond-2016Una lunghissima attesa durata quattro anni, dopo il capolavoro del 2012 “Channel Orange”, ha dipinto un’aura quasi mistica attorno al ventottenne originario di New Orleans. Almeno una decina di date d’uscita poi sempre posticipate, una campagna volutamente elusiva o forse incerta e indecisa, priva di grandi proclami e infine l’uscita di “Endless”, misterioso visual album cinematico lungo quarantacinque minuti che ha fatto da preludio all’album vero e proprio. Ultimo album effettivamente uscito per Def Jam che molti credono sia l’album vero e proprio vista la presenza di guest altisonanti, come James Blake, Jonny Greenwood dei Radiohead, Arca e addirittura il giovanissimo indie rocker Alex G. Altri continuano ad attendere, e l’attesa dura poco più di ventiquattrore, con il disco vero e proprio. Anche il titolo previsto si rivela fuorviante, “Boys Don’t Cry” diventa il nome della fantomatica label che lo pubblica mandando in crisi streaming ufficiali e accordi pregressi. Christopher Edwin Breaux, vero nome dell’ex Odd Future, rinuncia infatti ai suoi rapporti con le major e regala un album self-released scaricato da oltre 700mila persone illegalmente in una settimana, destinato a far parlare di sé molto a lungo. Non è meramente una questione di hype, come tanti altri fenomeni planetari contemporanei. “Blonde” che nella copertina molto umana e disagiata appare come “Blond”, è un ritratto autobiografico, sincero, tormentato e senza filtri di uno degli artisti più complessi della scena americana. Non ha momenti ammiccanti e movimentati o immediatamente pop/funk/hip hop come il suo illustre predecessore. Piuttosto è un album fatto di momenti introversi, di ballad, fatto di poche basi, tante collaborazioni di lusso e di intermezzi incompiuti. In controtendenza con il trend generale, è un album pieno di chitarre e strumenti veri, freddi, distanti, ma in qualche modo avvolgenti come un disco soul d’altri tempi, un classico R&B o un album folk-rock degli ultimi due decenni. “Blonde” è n’opera magna con pochi eguali negli ultimi anni, un intenso racconto in diciassette tracce, la cui bellezza e intensità non si schiude facilmente a primo ascolto, come invece “Channel Orange”.

Anche se l’inizio è subito un colpo al cuore. Il brano d’apertura che anticipa di un giorno l’uscita a sorpresa di “Blonde” è “Nikes”, in cui Frank impiega tre minuti per far sentire la sua vera voce che si insinua con tanto di autotune come in un’invocazione solenne, quasi rispondendo all’introduzione affidata a un vocoder dolciastro e al contempo sinistro. Poi arriva subito la struggente elegia “Ivy”. Con quelle chitarre stridenti e jangle da band di Brooklyn indie rock dello scorso decennio. E non a caso oltre a Jamie XX, in cabina di regia c’è l’ormai ex Vampire Weekend Rostam Batmanglij. Manca subito il fiato e con “Pink + White”, scritta con Pharrell e il vecchio compagno di avventure Tyler, The Creator, si ritorna parzialmente sulla terra (solo “Nights” sembra avere una dimensione terrena e un mood vagamente ottimista e liberatorio). La malinconia molto rievocativa assume dei contorni più da “Channel Orange” e si percepisce quasi a malapena la voce di Beyoncé nel chorus: l’effetto è quello di un brano dei Radiohead immerso in un’allucinazione R&B. Al ragazzo non è mai mancato il senso dell’umorismo, così al momento delle prime lacrime, piove dal cielo “Be Yourself” un minuto di voicemail materna che manda un messaggio eloquente su un tappeto di piano: “Do not smoke marijuana, do not consume alcohol, do not get in the car with someone who is inebriate”. Non è sua mamma, è la mamma di un suo amico, Rosie Watson, una mamma che ha vissuto nella realtà afro-americana dai movimenti dei diritti civili all’epidemia del crack di New York di fine anni Ottanta. “Don’t Try To Be Someone Else” un messaggio universale semplice e potente.

Ci pensa subito l’eterea “Solo” a far riscivolare l’ascoltatore nel mondo dolente e alienato di Frank Ocean. Un vero e proprio soliloquio, un gospel ultra-contemporaneo, il racconto sconsolato dell’attesa della telefonata del partner, dove Frank a tratti si avventura nel rap su un campione di “Flamingo” del mitico Todd Rundgren. Come si può già intuire, la lista dei credits, spoilerata online da Ocean nel giorno dell’uscita, è sterminata, a tratti criptica, se non imperscrutabile (vedi alla voce Kanye West, Brian Eno, David Bowie). I guest si limitano ad accompagnare la voce dell’unico protagonista del disco nei momenti decisivi del brano, senza mai comparire più del dovuto. Solo al guru degli Outkast André 3000 è concesso uno spazio esclusivo nella reprise della stessa “Solo”, unico momento di hip hop moderno, irrequieto e aggressivo orchestrato dal guru della produzione Mike Dean. André è anche lui, al solito, inquieto, sputa veleno, guarda indietro con amarezza al suo passato raffrontando la sua esperienza di rapper con il desolante quadro odierno. La nostalgia, il ricordo è uno dei leitmotiv di “Blonde”, da “Ivy” all’emozionante “Skyline To” con Kendrick Lamar seconda voce. Che siano ricordi ingenui di gioventù fatti di sesso occasionale e assunzioni meno occasionali di droghe, poco importa l’effettiva natura autobiografica degli stessi. I testi sono un turbine continuo di ricordi vomitati fuori senza filtro, dalle canne adolescenziali alle vecchie canzoni di Michael Jackson, passando per delusioni d’amore, rimorsi e crisi di identità. Difficile restare estranei e non immedesimarsi. “Self Control”, agrodolce soul (potenzialmente corale) dal fascino retrò, suona come un tributo di Ocean a Prince, con comparsate finali del promettente nuovo fenomeno hip hop svedese Yung Lean e di Austin Feinstein.

Nella seconda parte del disco sono ricorrenti gli intermezzi che rompono la tensione e umanizzano il capolavoro. C’è “Good Guy” una piccola improvvisazione di un minuto scritta senza collaboratori né co-producer, c’è “Facebook Story”, nuovo messaggio vocale del producer e dj francese SebastiAn e ancora il coito interrotto di un minuto e mezzo di “Close To You”, con sample da Stevie Wonder che reinterpreta Bacharach. Ma non mancano neanche nella seconda parte dei brani monumentali. La rassegnata “White Ferrari” su tutte, dove il team degli amici di Frank accoglie in formazione James Blake e Playboy Carti che impreziosiscono questa ballad nata da un campione della storica “Here, There and Everywhere” da “Revolver”, quasi a celebrarne in cinquantesimo anniversario. La lista dei guest non finisce qui. Torna in “Blonde” Jonny Greenwood, il genio visionario, polistrumentista dei Radiohead e di recente compositore di soundtrack mozzafiato, che non a caso si occupa della splendida orchestrazione della lunare “Siegfried”, anche questa costruita su un inconfondibile campione beatlesiano (“Flying”) e su quello della nostalgica “A Fond Farewell”, dal disco postumo di Elliott Smith “From A Basement On The Hill”. In questa seconda parte Frank sembra somatizzare il suo dolore interiore, senza alcuna volontà di sfogarlo e coinvolgere l’ascoltatore. Almeno fino alla viscerale, funerea “Godspeed” dove sembra momentaneamente liberarsi di ogni peso interiore. L’ultimo brivido lungo la schiena prima dei nove minuti della coraggiosa sinfonia finale di “Futura Free”. Ultimo atto sperimentale in due parti dove Frank Ocean dà sfogo al suo ultimo flusso di pensieri, a tutto campo tra popolarità, riconoscimenti personali, razza, sessualità e religione con richiami al mito di Tupac Shakur e a Selena. Dal soul a improvvisazioni passando per i Gang Of Four di “(Love Like) Anthrax” e tanto altro. Dopo qualche attimo di silenzio, arriva un nuovo messaggio veicolato dall’intervista realizzata da suo fratello Ryan con Mikey Alfred, Sage Elsesser e Na-kel Smith della Illegal Civilization, la crew di skater vicina alla OFWGKTA. L’accompagnamento è lo stesso di “Be Yourself”. E una frase a chiudere il disco: “Quanto dista un anno luce?”.

Frank Ocean, guarda lontano o più probabilmente ci osserva davvero da lontano, forse da un’altra galassia.

91/100

(Piero Merola)