Holy Wave, Combo, Firenze, 3 aprile 2016

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Il termine “psichedelia” descrive alla perfezione l’effetto suscitato dal live degli Holy Wave, gruppo texano attivo dal 2008 e da anni ospite fisso nel cartellone dell’Austin Psych Fest. “Psichedelia” però non significa necessariamente “rock psichedelico”, anche perché la formazione non è propriamente una band “rock” in senso stretto: nelle ultime produzioni (ma non solo) la formula sonora del quintetto sta prendendo diverse direzioni, indirizzate verso una sintesi – se non originale, quantomeno particolare – di suggestioni pop, divagazioni rumoristiche e shoegaze, dilatazioni psichedeliche. Su disco – “Evil hits”(2013, raccolta delle prime pubblicazioni), “Relax” (2014), “Freaks of nurture” (2016), i tre LP fino ad adesso pubblicati dai texani – a farla da padrone è l’intreccio tra melodia (pop) e rumore, ritmi lisergici e accelerazioni o tempi upbeat (quasi garage pop). Domenica 3 aprile, nella seconda ed ultima data italiana del tour europeo al Combo di Firenze, la formazione sul palco si presenta quindi, nella migliore tradizione “west coast anni sessanta”, come una jam band: ogni componente della formazione, con un approccio rilassato, magari sorseggiando ogni tanto una birretta, suona con un’attitudine libera (nella mentalità e nel modo di porsi), tant’è che, a parte il batterista (Julian Ruiz), tutti gli altri musicisti si scambiano gli strumenti durante il corso del concerto. E così Kyle Hager , Dustin Zozaya e Joey Cook passano tranquillamente dal basso/ chitarra alle tastiere. Ryan Fuson (chitarra e basso), invece, è il battito folle della sezione ritmica, sempre in movimento, così su di giri che ad un certo punto il filo di collegamento all’amplificatore si stacca. D’altronde ciò che sembra contare davvero è il vortice di suoni costruito dalla band: il magma dirompente che fonde, in maniera coinvolgente, due mondi musicali ben definiti, la neopsichedelia e lo shoegaze/ dream pop. Diventa, quindi, significativa la scelta di inserire a metà scaletta la cover di “Souvlaki space station” (brano storico degli Slowdive): il pezzo più lungo, più labirintico – quasi sei minuti – del secondo disco del gruppo di Reading. La canzone, nelle mani degli Holy Wave, acquista però una vena più pop e meno ambient e dura tre minuti scarsi. I brani autografi, invece, in sede live guadagnano in impatto ed atmosfera. L’obiettivo è, pertanto, chiaro: l’idea è di filtrare il pop psichedelico attraverso lo shoegaze anni novanta. E, nella maggior parte dei casi, l’intento è raggiunto appieno. Si può quindi dire che il gruppo stia portando avanti il discorso musicale iniziato nel 2008: quando Julian Ruiz e Kyle Hager quando formarono il gruppo, dopo essere stati affascinati dal “wall of sound” dei My bloody valentine.
Scaletta:
Do you feel it?
Air wolf
Magic landing
Star stamp
Wet and wild
Western playland
Souvlaki space station (Slowdive cover)
You should lie
Night tripper
Buddhist Pete

(Monica Mazzoli)