L’era dei coccodrilli

725px-Hugo_Simberg_Garden_of_Death(Hugo Simberg, Garden Of Death, 1896)

“Ciò che principalmente ti affligge nella morte altrui è la rinnovata visione della certezza della tua”
(Giuseppe Rensi).

La morte è un argomento tabù, un tema a cui ci sottraiamo volentieri anche solo per una semplice discussione, ed è facile capire il perché. Però ultimamente – a proposito delle perdite di David Bowie e di Lemmy – abbiamo assistito ad un proliferare di articoli, trasmissioni televisive, pensieri, messaggi di cordoglio che necessariamente discendevano dall’accadimento “morte”. E’ stato l’apice di un processo che pare inarrestabile: il “coccodrillo social” è una pratica sempre più in ascesa. Ma il tema è la morte o la vita dei personaggi che sono passati a miglior vita? E poi: in quei ricordi si celebra l’artista o piuttosto qualcosa d’altro? E infine: tutti questi necrologi social ci aiutano a capire meglio il “passaggio supremo”?
Sono tutte domande che da qualche giorno mi frullano in testa, e a cui – com’è facile comprendere – non si può riuscire a dare delle risposte compiute. Ma proveremo ad affrontare le questioni, comunque.
In primis la constatazione più ovvia che mi viene da fare è quella che la famosa meditazione di John Donne sul “per chi suona la campana” non corrisponde al sentimento “normale” dell’uomo. Donne fa un’affermazione profondamente vera, ma che non ci appartiene.

Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto. Se anche solo una zolla venisse lavata via dal mare, l’Europa ne sarebbe diminuita, come se le mancasse un promontorio, come se venisse a mancare una dimora di amici tuoi, o la tua stessa casa. La morte di qualsiasi uomo mi sminuisce, perché io sono parte dell’umanità. E dunque non chiedere mai per chi suona la campana: suona per te.
(John Donne)

La morte di qualunque altra persona dovrebbe toccarci nel profondo, perché è la stessa constatazione della nostra morte. Ma ciò non è vero: tutte le morti non sono uguali. La dipartita di una persona che non conosciamo non ci tange, fondamentalmente. A mio parere solo ad un grado elevato di umana compassione, raggiungibile probabilmente da pochi e solo dopo un cammino di esperienza, si può interiorizzare pienamente quanto dice Donne e compartecipare umanamente, con candida e sollevata pietas, alla comunicata morte di una qualunque persona. Dico “sollevata” perché siccome moriamo tutti, ciò può essere un alleggerimento del cuore: non si può avere paura di un evento che affrontano tutti. Non c’è nessuna sfortuna che accada o no: accade per tutti, per cui per certi versi lo si può considerare l’evento più egalitario che ci sia. E questa uguaglianza dovrebbe farci cogliere il senso della comunanza. Ebbene, con la testa possiamo fare tutti questi discorsi, ma con il cuore Donne non ha ragione.
Con il sentimento quello che ci tocca è la perdita di una persona cara, di un genitore, di un amico, di qualcuno che abbia inciso sulla nostra vita. E i propri eroi musicali lo hanno fatto: ad un appassionato di musica l’hanno cambiata.

“Ricordati che devi morire!” “Mò me lo segno”
(Massimo Troisi)

E qui torniamo al punto dei “coccodrilli”: nel passaggio a miglior vita di Bowie e Lemmy non abbiamo celebrato le loro vite, o la loro morte, ma la nostra vita. Abbiamo – e ciò è successo soprattutto nei social – sottolineato come la loro produzione musicale ci abbia cambiato (noi), ci abbia segnato una serata (nostra), ci abbia accompagnato come colonna sonora una parte della vita (nostra). Lo preciso subito perché non vorrei essere equivocato: in ciò non ci trovo nulla di strano, ed anzi è il significato stesso dei social network. Le persone che hanno sentito il dovere o l’opportunità di pubblicare qualcosa si sono messe a nudo, hanno raccontato qualcosa che faceva parte (intimamente) di loro, sono parse sincere. Non è questo il punto di questo articolo.
La questione è che quello nulla ha a che fare con il “mistero” della morte. Che differenza c’era tra i post dei giorni precedenti in cui si pubblicavano le vecchie canzoni in occasione dell’uscita del nuovo album di Bowie e i post successivi in cui si ripubblicavano le stesse songs dopo la morte? Tutto era cambiato, ma tutto era come prima.
Lasciando da parte chi ha manifestato la semplice volontà di esserci, di “commentare” la notizia come un qualsiasi “trending topic” su Twitter (e certamente ci sono), anche chi lo ha fatto sinceramente con tutta probabilità non si è accorto di questo aspetto. Anche sui social avviene lo stesso meccanismo di rimozione che difficilmente ci fa disquisire, nella vita reale, del significato della vita e della morte. E se non lo si fa quando una morte è “importante” per noi, quando lo faremo?
Per cui: nell’epoca dei social, nella sovraesposizione di tali messaggi, il rischio è la trattazione di un argomento così delicato, la morte, come fosse una qualsiasi altra notizia importante – una nuova legge, un fatto di cronaca, un gossip – con conseguente appiattimento del profondo senso di quello che si sta commentando. Nella nostra vita reale non sono tantissime le perdite che ci sconvolgono davvero, che ci creano quel peso allo sterno, che ci tormentano per giorni, per cui probabilmente il messaggio di chi griderà sempre di dolore, senza distinzione alcuna, alla perdita di qualsiasi artista potrebbe essere un’occasione persa per riflettere in merito e, per tale via, una banalizzazione del proprio messaggio, ancorché sincero.

“La nostra vita scaturisce dalla morte degli altri”
(Leonardo da Vinci)

Dovremo abituarci a questi continui “coccodrilli” perché i nostri eroi del rock hanno più o meno età compatibili a questi accadimenti. Diciamo che allora – se è vero quello che abbiamo detto prima, ovvero che nella morte noi comunque celebriamo la vita (la nostra) – la morte rimane fuori da tutto questo processo social, la morte è solo accennata, sullo sfondo, il suo senso e il suo significato profondo costituisce unicamente una cornice.
Inafferrabile come sempre, ma soprattutto in questi termini.

“Tanto per cominciare si dovrebbe iniziare morendo, e così il trauma è bello che superato. Quindi ti svegli in un letto di ospedale e apprezzi il fatto che vai migliorando giorno dopo giorno. Poi ti dimettono perché stai bene e la prima cosa che fai è andare in posta a ritirare la tua pensione e te la godi al meglio. Col passare del tempo le tue forze aumentano, il tuo fisico migliora, le rughe scompaiono. Poi inizi a lavorare e il primo giorno ti regalano un orologio d’oro. Lavori quarant’anni finché non sei così giovane da sfruttare adeguatamente il ritiro dalla vita lavorativa. Quindi vai di festino in festino, bevi, giochi, fai sesso e ti prepari per iniziare a studiare. Poi inizi la scuola, giochi con gli amici, senza alcun tipo di obblighi e responsabilità, finché non sei bebè. Quando sei sufficientemente piccolo, ti infili in un posto che ormai dovresti conoscere molto bene. Gli ultimi nove mesi te li passi flottando tranquillo e sereno, in un posto riscaldato con room service e tanto affetto, senza che nessuno ti rompa i coglioni. E alla fine abbandoni questo mondo in un orgasmo”.
(Woody Allen)

(Paolo Bardelli)