Way Out West, Göteborg, 7-9 agosto 2014

way-out-west-2015

Dal 2007 il Way Out West porta a Göteborg il meglio dei nomi in giro per l’Europa nelle prime settimane d’agosto. Indie, elettronica, hip hop, metal, avanguardia, c’è tutto il contrario di tutto nella tre-giorni organizzata nel suggestivo parco di Slottskogen, polmone verde nella città considerata il vero cuore culturale e musicale della Svezia più influente e cool.
Orgogliosamente eco-friendly e a impatto zero, dalla mezzanotte in poi, la rassegna si trasforma nello STAY OUT WEST: in centro fino a tarda notte in una decina di suggestive location nel centro della città svedese, tra club, parchi e spazi urbani. Colpisce subito la tranquillità e l’aria di normalità tipicamente scandinava, l’organizzazione impeccabile e l’atmosfera relativamente intima: 25mila partecipanti nei tre giorni, niente code, nessuna ansia da transenna e tre palchi molto vicini che permettono di godere della ricca line-up senza lunghe attese né patemi. Tra le caratteristiche più bizzarre l’assenza di cibo di origine animale e il divieto di consumo di alcolici in prossimità dei palchi. Per bere esistono delle riserve situate in zone strategiche con ottima visibilità su tutti i palchi dove dove la gente beve, come da tradizione scandinava, senza limiti e senza badare a spese. In bicchieri e bottiglie in plastica rigorosamente riciclabile. La fauna è ovviamente eterogenea, il 75% dei presenti sembra costituito da silenziose ed educate comparse da fashion week svedese che dalle nostre parti etichetteremmo con l’abusatissima espressione hipster. I volumi non sono sostenuti come la platea che si scatena esclusivamente nei momenti hip hop e durante le esibizioni dei nomi clou della scena svedese immancabili protagonisti del festival.

Il giovedì si apre sotto il tendone del palco LINNE con le atmosfere sinuose dei Poliça, band synth-pop di Minneapolis che rinuncia alle atmosfere tradizionali dello Stato per un suggestivo momento di elettronica algida e orecchiabile. In uno dei due palchi maggiori gli inspiegabili Labyrint offrono un momento reggae-dub che finisce subito nel dimenticatoio. Ci si beve su, la disidratazione impossibile grazie a fontane gratuite di acqua fresca per combattere il caldo di un sole tenue che rende la temperatura ottimale. Non è un inizio col botto almeno musicalmente con la ex Distillers Brody Dalle che risolleverebbe le sorti del suo live solo con una comparsata del compagno Josh Homme dei Queens Of The Stone Age (headliner della serata). Cosa che purtroppo non succede. Il primo momento folkloristico giunge con Markus Krunegård, navigata popstar più o meno indipendente (in Svezia il confine tra pop e mainstream è labile) dai modi tamarri che ricordano Povia e Grignani, ma offre uno show tipicamente Ikea-Pop. Si capisse qualcosa di quello che dice, se ne coglierebbe meglio l’essenza, forse. I Tinariwen ci riportano nel deserto, prima di uno degli show più attesi, l’avanguardia tra elettronica, soul, venature free-jazz di Neneh Cherry, la svedese sorella del più noto Eagle Eye che non delude le attese con uno spettacolo stellare.

A Rebecca & Fiona, duo kitsch tra PC Music ed electro-pop locale post-Lady Gaga, si preferiscono gli improbabili Motorhead. Lemmy e soci suonano di fronte a un audience indescrivibilmente eterogeneo. C’è di tutto, i tre sono un po’ arrugginiti, ma l’improbabilità della situazione la rende a suo modo unica. Nota di colore, dei ragazzini bianchicci e minorenni che fanno da security mentre nelle prime file i posati metallari scandinavi fanno headbanging. Il festival dell’assurdo. Sul palco opposto The National vorrebbero iniziare a suonare, ma i Motorhead non smettono più. Purtroppo la band di Matt Berninger non smentisce a tratti quel mood pericolosamente monocorde e soporifero che in un festival non depone a proprio favore, in una giornata così movimentata e festaiola. Sotto al tendone il lungo trip tra fumo e luci basse da club dei Darkside ci rimette in pace con l’esistenza. Non è finita qui, c’è spazio per una cena vegana e i Queens Of The Stone Age che fanno sbadigliare nei brani nuovi, ma gasano maledettamente nei vecchi ripescaggi degli albori. La serata si chiude con un devastante live di Joey Badass, giovane promessa della scena hip hop di Brooklyn. E finalmente, complice anche l’orario e l’alcol accumulato, gli svedesi (il 98% del pubblico è svedese) si trasformano in animali da festival. Per lo STAY OUT WEST, bisogna fare delle scelte perché il parco chiude presto e tutti si riversano nelle strade cercando di accedere a uno dei club designati per gli after. Esistono solo le guest list delle band, per tutti gli altri si fa democraticamente la fila, così si riesce a entrare allo Jazzhuset dove l’operazione nostalgia prevede i mitici D.O.A. e gli Agent Orange. Ad aprire gli inquietanti psych-nipponici Bo Ningen. Soffitto bassissimo, specialmente per i local, locale dall’aria retrò per una chiusura anomala di una prima giornata anomala. Ci si abituerà a tutti questi mischioni.

Nel giorno due ormai ci si è abituati alle simpatiche accozzaglie. Aprire gli occhi, ricaricarsi con una colazione fin troppo abbondante e andare a vedere Sharon Van Etten è la medicina per tutto. Per pochi intimi, sotto il tendone, ci fa piangere in fascia oraria molto prematura. Sarà una lunghissima giornata. Lo scossone arriva con i Clean Bandit che hanno sostituito in corsa The Horrors. Attivi dal 2009 e ormai prossimi all’esplosione mainstream ci offrono una bizzarra accozzaglia di deep house, EDM e arrangiamenti per quartetto d’archi. Non ci si stupisce di nulla, così come non ci si stupisce di spostarsi nella boiler room pre-pomeridiana dove si alternano Pional e Jamie XX. Tutto molto a caso. Il pomeriggio ingrana finalmente con Blood Orange (e immancabile ospitata della partner Samantha Urbani, ex Friends) che si esibisce con le stampelle, ma ostenta classe ed eleganza nel suo revival 80s tra funk e Prince. Nei due palchi principali ci si può gustare nel relax pomeridiano prima l’energico live di Neko Case (The New Pornographers) e poi addirittura Bill Callahan che fa scendere una cappa di metaforica nebbia nei buoni sentimenti che accompagnano il day 2. Una tristezza apparentemente fuoriluogo, ma che alla fine si rivela a suo modo liberatoria.

Al tramonto corrisponde una virata nelle sonorità black: prima Future nel consueto momento di hip hop che dà sfogo agli istinti più animaleschi e scatenati della posata platea. Mapei si rivela una valida promessa della scena black svedese, così come i Little Dragon alcuni degli esponenti più originali e sperimentali di quell’ondata ikea-pop (dalla nostra rubrica) che aveva reso la Svezia uno dei Paesi musicalmente più prolifici negli anni Duemila. Poi si torna in America e arrivano uno di seguito all’altro due degli act più attesi. Prima Janelle Monae in un’ora offre uno show stellare con una super-band dal look anni ’30, irresistibili motivi 50s, soul, funky e una performance personale da instancabile frontwoman che salta, urla, sbraita e soprattutto canta senza una sbavatura per sessanta minuti. Ci si meriterebbe una pausa (la si usa per seguire da lontano un’altra carnevalata, quella delle eroine nazionali Icona Pop), ma i big della serata guadagnano il palco con una scenografia essenziale e una bandierona americana in bianco e nero inconfondibile. Gli Outkast sono stati una delle formazioni hip hop più influenti degli ultimi vent’anni e, nonostante i timori sulla forzatura della reunion, regalano momenti indelebili. Non mancano i classici del loro sterminato repertorio (“Ms. Jackson”, “Hey Ya”, “Roses”, “So Fresh, So Clean”, “Aquemini” “SpottieOttieDopaliscious” tra le tante) , non mancano le gag, l’inguaribile e tagliente ironia del flow di André 3000 e l’irresistibile Big Boi infiammano le migliaia di presenti dalla straripante partenza con “B.O.B.”). Nessuno si cura di quello che succede sotto il tendone, i malcapitati Slowdive che si esibiscono nel disinteresse generale. Ma le robe per nigga, lo si è capito, a queste latitudini tirano molto di più.

Lo Stay Out West, grazie alla gentile cortesia dell’amico Kiko, lo si dedica al palco ospitato dal Liseberg, il parco dei divertimenti più antico di Svezia, uno dei simboli della città. Si rinuncia ad altro, ma la rassegna notturna è un terno al lotto per cercare di entrare negli afterswhow (se non in guestlist). Il trittico The Growlers, Royal Blood e Mac DeMarco ci accompagna fino alla notte, tra le sfuriate e il mood alcolico dei primi, il rock granitico dei secondi e il cabaret del terzo che rompe due corde, affida l’intrattenimento nelle attese ai compagni di band che improvvisano dei karaoke, ma quando fa sul serio mette in lustro il suo talento competitivo e cantautorale incredibilmente ispirato.

L’ultimo giorno è quello del rischio pioggia che si manifesta dopo il buongiorno leggerino offerto dai Deafheaven. Rispetto al giorno prima, un risveglio dei sensi molto più brusco, il relax pomeridiano è un nuovo buco nero nella tristezza più nera e nichilista con il live degli Slint. Per fortuna si è al coperto e tutta la platea dei presenti si riversa sotto il tendone in attesa della carnevalata di Elliphant che regala con il suo zucchero electro-pop l’ennesimo sbalzo d’umore, dopo i dramma della band del Kentucky. La pioggia non risparmia nessuno, ma qui sembrano tutti piuttosto abituati. I malcapitati Neutral Milk Hotel si esibiscono nella mezzora più difficile. Mi arriva un sms da uno di loro con una bestemmia in italiano che fa intravedere una certa preoccupazione per la ricchissima strumentazione della cult-band riunitasi quest’anno. Tuttavia, grazie alla pioggia e un mood incredibilmente ottimista di Jeff Mangum, ne viene fuori un live commovente che resterà impresso nella memoria dei moltissimi coraggiosi presenti che sfidano la pioggia.
Il Way Out West ha tanti tempi morti, così mentre non succede niente di particolare, si ha il tempo di asciugarsi, tornare in hotel e cambiarsi senza perdere praticamente nulla. Si torna in tempo per lo sfavillante ritorno di Mos Def, oggi Yasiin Bey che nonostante il cambio di nome, sa ancora sputare fiele e rianimare la folla. Per molti è un preludio perfetto per l’arrivo di due nomi clou locali, anzi tre che chiuderanno la prima parte della serata. C’è Veronica Maggio, la loro popstar che unisce trasversalmente uomini, donne, bambini, metallari, hipster e fighetti. E poi la chiusura ideale con Robyn & Royksopp che regalano un ideale compendio del meglio della dance e dell’elettronica offerto dai paesi scandinavi nell’ultimo decennio e mezzo. La gente impazzisce letteralmente, ma qualcuno ha ancora un po’ di energia per godersi l’ultima niggata col pupillo di Kanye West, Pusha T.

Un’altra capatina al Jazzhuset con Jens Lekman che si aggira tra i clienti e poi i Circa Waves e i locali Holograms che ci danno l’ideale saluto e appuntamento al prossimo anno.

Se vi piacciono i festival tranquilli, e mai privi di stile, novità ed eterogeneità, prenotate subito per la Svezia.

way out west