ROSE WINDOWS, “The Sun Dogs” (Sub Pop, 2013)

942105_536182309756664_1357075558_nAd ascoltare “The Sun Dogs”, album di debutto dei Rose Windows, viene da chiedersi se il futuro sia un’illusione ottica, qualcosa che sembra esserci, ma che in fondo è impalpabile, inafferrabile. La musica dei Rose Windows, nata dalla mente di Chris Cheveyo, è proiettata verso il passato, più precisamente verso gli anni sessanta e settanta : la California acida dei Jefferson Airplane, il suono heavy dei Black Sabbath, il folk rock femminile di Vashti Bunyan e Linda Perhacs (più la prima che la seconda) e il raga rock.

Il progetto “Rose Windows” parte nel 2010, e da quel momento, idealmente, il tempo si ferma, come per magia. “The Sun Dogs” è la realizzazione di un sogno, quello di vivere e far rivivere gli anni sessanta/settanta. Non si spiega altrimenti un album così, disco dalla produzione impeccabile, ad opera di Randal Dunn e Boris (Earth, Master Musicians of Bukkake), ma terribilmente nostalgico, quasi conservatore e tradizionalista nella sua voglia di passato. La struttura e la forma dei brani seguono certi canoni stilistici, non oltrepassano l’ostacolo, rimangono fedeli a certi suoni e richiami classici, dove per classico si intende la psichedelia degli anni sessanta (“Native Dreams”, “This Shroud”). L’adesione a questi stilemi non lascia spazio a possibili o ipotetiche uscite fuori dal seminato musicale di riferimento, fatta eccezione per la splendida “The Sun Dogs II: Coda”: un intermezzo strumentale di sei minuti, dai toni ibridi e fatali, a metà strada tra Primal Scream (di “Movin on’ up”), Echo & The Bunnymen (di “Ocean Rain”) e Grace Slick sotto l’effetto dell’LSD.

“The Sun Dogs”, più che un disco, è un macchina del tempo, perfetta e infallibile, i romantici tedeschi la chiamerebbero “Sehnsucht” (tra nostalgia e desiderio). Non penso ci sia definizione migliore, i Rose Windows anelano ardentemente a ciò che non c’è più. Lo fanno con classe, ma con poca personalità. Producono un disco ben fatto e ben registrato, privo però di incisività e riconoscibilità artistica. Peccato.

63/100

(Monica Mazzoli)

9 luglio 2013