IRON & WINE, “Ghost On Ghost” (Nonesuch, 2013)

8220352f0c9cdea4811b58030e734884“In realtà, noi siamo una libertà che sceglie, ma non scegliamo liberi: siamo condannati alla libertà”, così Sartre spiegava quella parolaccia così antipatica che innalziamo a ideale bifronte e conveniente per ogni occasione… La libertà “pregiudiziale”, viziosa, finta, che agisce per forma e atteggiamenti e solo raramente vuole o può essere sostanziale. Prendo in prestito il ragionamento per introdurre Mr. Beam, alias Iron & Wine, che dieci anni fa inaugurava il filone neo-folk su Sub Pop.

Un tipo dotato, di quelli a cui la melodia veniva sempre facile e affascinante, che sapeva costruire un pezzo con due suoni creando qualcosa di nuovo e comunque sensato. Il talento lo ha portato, come è giusto che sia, a un mezzo successo, poi al passaggio a una major e ora eccolo di ritorno a un’indipendenza patinata. Perché? Per la libertà, ovviamente. Che tipo di libertà? Quella di trasformarsi da cantautore indie minimalista a interprete pop raffinato e senza confini. Libero, come uno schiavo emancipato dal mercato, o come un nobile che si costringe per solidarietà alla servitù della gleba intellettuale negli Stati del Sud di un Pre-war sognato e rimpianto.

Iron & Wine è controcorrente, non si lascia ingabbiare, sa svincolarsi dalla necessità e allora fa un po’ quello che gli pare, perché è un uomo, un artista maturo e non ha più voglia di limitarsi a un genere, a un suono, alla finta autenticità dei limiti. Ascoltiamolo dunque mischiare R’n’B, country, ballata beatlesiana, old jazz, funky jazz, soft rock a là James Taylor (“Joy”), croonerismi d’atmosfera e gesti ricercati da ex campione dell’indie, sospirando e meditando su sincopi ben stirate e solo un po’ sgualcite sui bordi, come a ricordare il bel passato da outsider di successo. Ammiriamo la ritmica così pulita e trascinante che anima i brani manco fossimo in una session degli Steely Dan. E, ammettiamolo, ne esce fuori un buon canzoniere, registrato con stile e cura, diverso da ciò che potevamo aspettarci, quindi nuovo, unico, non scontato.

Un disco coraggioso? Logicamente sì. Sostanzialmente no. Gli arrangiamenti soffocano le canzoni e disperdono la brillantezza, l’umore, di un songwriting che pareva molto più a suo agio nel folk storto e stonato degli anni trascorsi. Prendete “Low Light Buddy Of Mine” e immaginatevela con un arrangiamento meno leccato, più istintivo… Sarebbe stato un piccolo capolavoro. Ma Iron & Wine vuole la libertà, intende superare lo stereotipo, misurare la propria resistenza disperdendo ogni modo finito già manifestato. E allora spazio ai fiati, agli archi, agli strumenti suonati con calda freddezza e freddo calore, alla batteria cool jazz, al basso cinicamente blues e alla chitarra acustica solo quando c’è da richiamare il passato per contrapporlo allo splendente presente. Tanta alta fedeltà su materia malinconica, gospel e blues sistemati al mixer e falsetti tremendamente pop che più pop non si può (“Mexico No Breeze”). Un po’ di riverbero qua e là per confondere le acque. Che noia.

45/100

(Giuseppe Franza)

29 aprile 2013

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