WAXAHATCHEE, “Cerulean Salt” (Don Giovanni Records, 2013)

Waxahatchee-Cerulean-Salt1 Io negli anni Novanta ero incosciente, nel senso che non ero cosciente. Mi sono accorto di esistere per davvero solo più tardi, e quindi ho perso tutto quello che il decennio significava. Col tempo ho scoperto le cose successe in quegli anni, mentre io ero in impegnato a fare boh, chissà cosa. La musica ruvida, gli Stati Uniti, i capelli lunghi, i nomi che già vi sono venute in mente. Ma sono state sempre cose un po’ sfuocate, che non capivo mai del tutto, si sentiva sempre uno scarto di età.
Fortunatamente le cose succedono circolarmente e ad un certo punto del Duemilatredici, cioè adesso, esce “Cerulean Salt”, il secondo disco di una ragazzina che non contenta del suo comunissimo nome – Katie – decide di farsi chiamare Waxahatchee. E arriva per spiegare la lezione di Storia per chi come me era stato assente.

Il disco è una dichiarata operazione nostalgica, anche la copertina (splendida) ci avvisa che per ascoltare questo disco servono jeans strappati, camicie larghe e soprattutto la giusta dose di sangue marcio nelle vene. I suoni sono quelli del del primo indie stellestrisce, e mentre le canzoni filano tutte e tredici una dietro l’altra ci (ri?)vengono in mente i Beat Happening, i Pussy Galore, Elliott Smith, la giovine Cat Power: tre-accordi-tre di basso o di chitarra, la voce senza chissà quale inutili pretese di bel canto e quindi perfetta. Ce la immaginiamo, Kate-Waxahatchee a fare le prove nel garage del suo batterista (il batterista è sempre quello che ha il garage per suonarci dentro).

Messe da parte le ovvietà fino ad ora sviolinate con il solo scopo di ingentilire quelli che c’erano, o semplicemente gli affezionati, si passa alle cose serie. E il punto è questo: c’è molta differenza tra chi copia perché senza stile, e chi ha talmente stile che riesce a copiare senza farsi vedere. Kate-Waxahatchee è parecchio brava, canta e suona come si faceva ormai vent’anni fa, quando anche lei era troppo piccola per esserci con la testa. Le canzoni vanno avanti senza che ci si accorga della fine di una e l’inizio dell’altra, è un disco intero, e mai mai scontato.
Anzi, alla fine della traccia tredici viene voglia di togliere la polvere ai vecchi dischi – macché dischi, le audiocassette! – e di passare un po’ di tempo insieme a quello che degli anni Novanta ci ricordiamo. O nel mio caso, quello che ci immaginiamo soltanto.

78/100

(Enrico Stradi)

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