LONNIE HOLLEY, “Just Before Music” (Dust-to-digital, 2012)

LONNIE HOLLEYDal dolore nasce la musica migliore. Non che la felicità freni la creatività, ma la sofferenza fa si che si scavi più a fondo. I dischi nati sotto la scintilla dell’entusiasmo prendono per buona l’ispirazione, l’euforia, la gioia e la tramutano in eccitazione, irrefrenabile vitalità e rocambolesco inno alla vita. La musica nata sotto una cattiva stella vive di più substrati, non è inizialmente decifrabile, trasmette paura eppure affascina come poche altre cose al mondo. Sofferenza che diventa però rivincita. Penso in questi anni a Charles Bradley, al suo soul che è diventato la chimera raggiunta, oppure a Mayer Nathaniel, anni di oblio e poi la fama quando la terra aveva già seppellito la salma. Il meglio che possa capitare all’eroe che canta per passione.

Oggi la storia che mi preme divulgare è quella di Lonnie Holley. Classe 1950, afroamericano e figlio di ventisette fratelli, Lonnie ha vissuto, parafrasando Dante, un inferno senza speranze, che gli divorò letteralmente la vita e gli tolse alcuni nipoti a lui molto legati. Dante però non conosceva esattamente il potere della musica. E dell’arte. Il nostro uomo decise così, spinto dalla necessità di creare per non morire, di commemorare la morte dei piccoli parenti con sculture rudimentali, che, mistero della vita, divennero il sostentamento iniziale e il futuro attuale fino all’esposizione nei più importanti musei di NY e non solo. Arte chiama Arte. Così la trasfigurazione dell’esperienza di quest’uomo segnato dalla vita diventa anche un disco. “Just Before Music” è una scultura liquefatta. Primitiva e grezza, fatta con materiale arrangiato eppure vivissima. Parole come terra. Synth come vento. Esorcizzare il dolore vivendolo di nuovo. Pubblicandolo. Condividendolo. Poche cose fanno male come la verità. Poca musica oggi ha il coraggio di spogliarsi di orpelli per arrivare a colpire al cuore.

Questo disco lo fa in maniera disarmante, grida (senza mai alzare la voce, solamente sussurrando) e butta fuori l’angoscia riappacificandosi con Dio attraverso canzoni fatte davvero di nulla. I quindici minuti di “Fifth Child Burning” “bruciano”; non in modo canonico ma in maniera circolare, poesia che si ricicla in preghiera utilizzando rumori di synth come substrato musicale. Primitivo e antico eppure vicino alla vita di oggi, che ha le stesse paure e le stesse speranze da secoli. “Looking for all (all rendered truth)” posta in apertura è un canto di speranza. “Planeth Earth and Otherwheres” posta in chiusura assurge al ruolo di riappacificazione.

Poesia e poco altro. Quello di cui avremmo più bisogno.

90/100

(Nicola Guerra)

11 marzo 2013

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