DAVID BOWIE, “The Next Day” (ISO Records, 2013)

KALPORZ20.doc“The Next Day” è un disco profondo. Pensato. Alto. Criticamente spirituale. Mondano. Disperato. Arreso. Elegantemente riflessivo. Passato prossimo. Inattuale. Un album che racconta ragioni realmente personali con musica e parole dove la voce bassa di Bowie si stende con nobile eleganza su arrangiamenti affilati e sapientemente nostalgici. Gli strumenti suonano quieti o irrequieti, retrò o contemporanei, assecondando o ignorando i sentimenti chiamati in causa ed espressi dal cantante. La title track è un ottimo affresco notturno di cosciente incoscienza rock, pantomima della decadenza, ambiguità ritmica di accento tedesco, dove l’attimo domina sul tempo e l’umore supera la melodia. Il singolo “Where Are We Now” è una ballata malinconica, introspettiva, e costruita con intelligenza, stile e professionalità storica. “Dirty Boys” declina il pop (con e senza Iggy) travestendolo di blues e traducendolo in cabaret liquido. Colpiscono a fondo il ritmo e il basso di “Love Is Lost”, coinvolgono le impennate elettriche di “The Stars (Are Out Tonight)”. Bowie e Visconti ordiscono trame volutamente dilatate ma ricche di appigli logici, ontologici, psicologici. Chi sa, chi sente, coglie… I suoni spaziano dal classico all’innovativo, dal recupero al lampo sconsiderato di stile e maniera. La conclusiva “Heat” scopre le carte e il dubbio esistenziale. “Non so chi sono”, canta l’uomo che cadde sulla terra. E se non lo sa lui come possiamo pretendere di saperlo noi?

Tutto considerato, cari lettori, d’ora in poi non avrà più senso lambiccarsi il cervello sulla vera natura di David Bowie, sul grado di caratura estetica dell’arte che ha voluto consegnarci. Si è detto troppo e male. Si è sparlato con superficialità, prosopopea, ideologia e cattiveria. Sono stati emessi giudizi assai perfettibili. Ma nulla è più pervasivo del pettegolezzo. L’artista che scompare affascina, incuriosisce e scatena la morbosità. E la musica passa in secondo piano, perde di senso o ne acquista troppo. Si è detto che Bowie è stato un abile emulatore (nel senso latino ed eclettico del termine), un rabdomante che ha costruito la propria carriera estraendo (o rubando) dal sottosuolo idee preziose allo stato grezzo per levigarle e trasformale in chiave imprenditoriale. Si è però ignorato il fatto che da molto tempo (pausa compresa) Bowie emula solo se stesso, riuscendo forse a trovare ispirazione degna in niente altro che nella propria vecchia produzione. Prendiamo “…Hours”, un album ingenerosamente screditato dalla critica e sottovalutato dal pubblico che riordinava in senso pop-rock le visioni del primissimo Bowie della Londra di fine ’60 e inizio ’70, quando il rock era ancora imbrigliato nel soul e il pop sposava il teatro e il folk sgangherato degli hippy più disadattati. L’esperimento si ripete con questo “giorno dopo” e i riferimenti si spostano di qualche anno in avanti fino alla cattività berlinese. Anni di tossicodipendenza e disintossicazione, decadance e ricerca, isolamento e autoanalisi. Niente di nuovo, fondamentalmente. La ricerca prosegue solo apparentemente e si ripiega sull’umore assonnato di chi sente il peso e l’imbarazzo della storia con un lavoro drammatico e lirico di intelligente pathos e distanza. La copertina spiega tutto e niente. L’eroe di Berlino Ovest oscurato dall’etichetta minimale del nuovo corso. Bowie racconta il passato, lo rimpiange, si specchia e scopre che i tormenti sono gli stessi di un tempo, ma le illusioni scarseggiano. La disperazione è ancora viva, ma meno affascinante e seducente di un tempo. La vita è ancora rumorosa, ma la morte è più vicina… Non si cresce, s’invecchia. Non si comprende, ci si adatta.

80/100

(Giuseppe Franza)

 19 marzo 2013

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