Radiohead (+ Caribou), Arena Parco Nord, Bologna, 25 settembre 2012

Per chi ha già visto i Radiohead in diversi tour e in diverse location, conta la cura del dettaglio prima di tutto. E questa data di Bologna voluta dall’amministrazione del sindaco omonimo del sottoscritto ha superato diverse sfighe. Prima il terremoto che ha reso necessario lo spostamento da Piazza Maggiore all’Arena Parco Nord. Poi lo slittamento del tour per la morte del roadie Scott Johnson. Doveva diventare il perfetto equivalente del concerto dei Clash nella rabbiosa Bologna del 1980, in una Bologna meno rabbiosa, svuotata e priva di identità. Quella, appunto degli anni Duemila, gli anni dei Radiohead, che tornano in Emilia dopo la storica doppietta di Ferrara. Perfetta colonna sonora dell’eterogeneità (evitando concetti stucchevoli come liquidità), loro che hanno sempre gradito location d’impatto artistico, così come a Roma e a Firenze finiscono relegati in un parco come gli altri.

L’arena del Parco Nord non ha ospitato i Clash né momenti storici o politici di una certa rilevanza, ma come un ipermercato musicale ha accolto raduni punk e di Mtv, Gods Of Metal, festival indipendenti e non, sorgendo nella zona della Festa dell’Unità (o del PD) cittadina. I Radiohead sono diventati immeritatamente un manifesto di eterogeneità, a dispetto della complessità dell’ultimo “The King Of Limbs”. Ci trovi dal rasta alla diciassettenne che ripassa per l’interrogazione in fila per entrare. Dalla cinquantenne al rockettaro fuorisede con t-shirt di gruppi che crede alternativi solo perché nella sua città d’origine ancora lo sono. Dall’hipster – categoria radioheadiana ancora prevalente all’estero, appena scoperta da bologna.repubblica.it – che glissa fingendo di essere qui per Caribou all’apparente fan di Emma Marrone che lo pronuncia CaribOU. Per tutte queste persone, Caribou è un perfetto sconosciuto. Eppure i suoi trentacinque minuti sono un viatico perfetto (anche Thom non risparmierà elogi nel bis) all’evento. Durante il line check, gli si chiedono 25 minuti (almeno) di “Sun”, lui fa le spallucce scusandosi. “Swim” e in parte “Andorra” sono due album che fanno le scarpe agli ultimi due dei Radiohead. Successo meritato per l’instancabile Dan Snaith, applauditissimo per “Odessa”, “Bowls” e soprattutto per “Sun”, e che dopo il concerto si lancerà nella fossa dei leoni dell’eterogeneo Kindergarten per un dj-set after. Sun, sun, sun, sun, sun, sun…

Tornando ai Radiohead, per le suddette categorie urbane o suburbane, quello di Bologna è stato un “concerto della madonna”. Per gli enciclopedici filologi alla ricerca della scaletta perfetta, un po’ meno. Ci si mette il povero Jonny Greenwood, sempre più avulso dalla band e dalla realtà, a dare spunti di normale narrazione alla classica “tempesta perfetta” degli oxfordiani più famosi al mondo. Dimentica di imbracciare la chitarra preso dal tambureggiare incessante di “There There”, gli sfuggono gli accordi di “You And Whose Army?” (tra i momenti migliori della serata infilata nel mezzo dello splendido terzetto “Amnesiac”, tra “Pyramid Song” e “I Might Be Wrong”), pasticcia un paio di sequenze in “Idioteque” e – impagabile – si prende il rimprovero di Thom al microfono durante “Exit Music”. “Hey, Jonny, turn the fucking mic off” sbotta il frontman per lamentarsi con il socio più giovane.
Piccole imperfezioni giovano alla de-idealizzazione di una band che dal vivo riesce a rendere stellari o quasi brani che classici non sono, “Morning Mr. Magpie” o “Little By Little”, con l’anonima “Separator” che acquista un calore quasi r’n’b. La devastante “Lotus Flower” che apre un po’ a sorpresa prima di una “Bloom” eterea e rallentata, è già diventato un classico. Gli schermi e le luci rendono l’esperienza quasi tridimensionale. In “Lucky” sembra di nuotare nel bagliore rosso del ritornello. Altri bagliori, dal retrogusto sci-fi in “Feral” e “The Gloaming” sono il solito irrespirabile buco nero digitale. Tra le sorprese di questa leg, spicca e si fionda in cielo come un flashback mai così gradevole e gradito, “Planet Telex”. La folgorante apertura di “The Bends” strappa una certa commozione, ha un che di ancestrale e mistico, tra presenti che non erano nemmeno nati all’epoca e improbabili individui dell’ultim’ora che piuttosto cantano a squarciagola la stucchevole “Reckoner” o “House Of Cards”.

Inspiegabilmente infatti, nonostante la straordinaria risposta dei 20mila (con un’educazione rara in Italia, rispetto agli ultimi precedenti). La lunare “Kid A”, “Myxomatosis” e “Planet Telex” messa dopo il trittico a tema Amnesiac sono tra i momenti top, quasi affini per alcune soluzioni negli arrangiamenti. Il silenzio da brividi di “Exit Music” è rotto dall’inconsueto diverbio. Il karma, termine lennoniano che loro hanno riportato in auge nell’immaginario pop ben prima di My Name Is Earl, si è preso una rivincita. Non si sa perché, infatti, dopo aver rinunciato a “Airbag” per ritornare sul palco con “Give Up The Ghost”, Thom sceglie di rinunciare a “How To Disappear Completely” che era invece in programma nel primo encore. Forse anche per questo motivo, sbuca fuori una rassicurante (per quanto inutile) “House Of Cards”. Il siparietto che precede “The Daily Mail” contribuisce a umanizzare ulteriormente la situazione. Il pubblico inneggia a Jonny che sembra un bambino autistico messo in castigo. Thom intona al piano una marcetta anni da film muto anni Trenta. Lo strappo sembra ricucito. Poco da aggiungere sugli altri “Radiohead”. I due inquietanti cloni alla batteria, quello con la faccia buona (Phil) e quello con la faccia da cattivo (Clive) sono delle macchine. Colin è sempre più l’anima della band, anche perché il basso è sempre più spesso la cosa migliore. Ed si piace sempre, tiene le pubbliche relazioni con le prime file, salta, balla e si diverte ballando male. Thom, esperto di stile (chissà se come per i suoi skinny rossi anche la coda di cavallo sarà hipster tra un paio di anni) balla meglio, e ci sarebbe poco da sorprendersi. In “Idioteque” balla più del pubblico, stranamente annichilito e poco incline al ballo (anche quando sarebbe doveroso). In “Everything In Its Right Place” dà un saggio delle sue intatte doti aprendola con una dilatata “True Love Waits” quasi a cappella.

Ah ci sarebbe anche “Paranoid Android”, usata a malincuore come pausa sigaretta. Ripensando a quella prima volta a Firenze e guardando con invidia chi qui a Bologna è alla sua prima volta.


(foto credits: Vivo Concerti, Henry Ruggeri Photo)

Lotus Flower
Bloom
15 Step
Lucky
Kid A
Morning Mr. Magpie
There There
The Gloaming
Separator
Pyramid Song
You and Whose Army?
I Might Be Wrong
Planet Telex
Feral
Little by Little
Idioteque
—-
Give Up the Ghost
Exit Music (for a Film)
The Daily Mail
Myxomatosis
Paranoid Android
—-
House of Cards
Reckoner
True Love Waits + Everything In Its Right Place

(Piero Merola)

26 Settembre 2012

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