Flaming Lips + Verdena, GruVillage, Grugliasco (TO), 11 luglio 2012

Leggere il cartellone del GruVillage fa quasi ridere: in mezzo a nomi da Radio Italia che più mainstream non si può (giro Amici di Maria De Filippi e cose simili, nessuno scherzo) capita di trovare anche un’inedita quanto imperdibile accoppiata del genere. L’anno scorso era toccato ai dEUS sfidare l’area verde adiacente al grosso e tetro centro commerciale nell’immediata cintura sabauda, quest’anno per la rubrica “Trova l’intruso” la posta è schizzata ancora più in alto. Verdena e Flaming Lips, si diceva: in un’estate torinese caratterizzata da un Traffic in cauto rialzo e uno sPAZIALE in cerca di una ricollocazione là dove merita di stare, la data proposta dal festival di Grugliasco si piazzava tranquillamente sul podio degli eventi da non perdere in città. A fine serata, un pubblico non da grandi occasioni ma sufficientemente folto considerato il prezzo del biglietto (22-25€, cifra congrua ai gruppi sul palco ma di questi tempi obiettivamente non scucibile a cuor leggero) se ne sarà tornato a casa sperando di ritrovarsi più spesso da queste parti se l’intrattenimento proposto è sempre di tal fattura. Ma andiamo con ordine.

Verdena all’atto secondo delle uniche due tappe previste per quest’anno, a riposo dopo un 2011 perennemente in tour a supporto dell’ultimo “WOW”. Occasione troppo ghiotta per tener fede alla parola data, specie vista l’adorazione verso la band di Oklahoma da parte dei fratelli Ferrari. Tenendo conto che non potevano essere rodati dall’oggi al domani, che l’audio per loro era decisamente criminale e che le condizioni fisiche dei nostri non erano al top (voce bassa per Alberto, ginocchio ko per Luca), la performance si colloca comunque sulla sufficienza. Certo, non è stato il solito (grande) concerto dei Verdena fatto botte di adrenalina elettrica e momenti riflessivi, ma aspettarsi molto di più data la circostanza speciale era francamente difficile. Scaletta che ha pescato esclusivamente dagli ultimi due, tra le cavalcate chitarristiche di “Loniterp” (con Wayne Coyne immerso nell’incedere a lato del palco), “Don Calisto” e l’ipnotico finale di “Sotto Prescrizione del dott. Huxley”. In mezzo, “Nuova Luce”, “Caños”, “Badea Blues” e diversi pezzi al piano come “Scegli Me”, “Grattacielo”, “Miglioramento” ed “È Solo Lunedì”. Non nel novero dei set indimenticabili ma quanto basta per solleticare un palato mai sazio quando si tratta dei bergamaschi. Nonostante le contingenze, era giusto che ad aprire per gli americani ci fossero loro.

E veniamo agli headliner, per cui mi è d’uopo una categorizzazione dei partecipanti tanto bislacca quanto più che mai pertinente, trattandosi di una band decisamente fuori dall’ordinario. Pubblico di tipo A: il fan dei Flaming Lips. Qualunque cosa accada, quand’anche Wayne non becchi una nota tutta la sera, sarà sempre il concerto della vita. Fanatismi, per l’appunto. Tipo B: il realista. Visti la prima volta, concerto della vita. Visti la seconda, “certo che la voce…”. Visti la terza, “questi fan solo coriandoli e reprise, che ca***”. No snobismi, realismi. Tipo C: il verginello. Beato lui che non li ha mai visti, qualsiasi cosa faranno sarà il concerto della vita.

Perché tutto sto pippone? Perché presentandomi alla serata con diversi concerti sul groppone – cucendomi quindi addosso la seconda tipologia, che al di là delle gonfiature reputo piuttosto verosimile essendo spesso condivisa – la speranza era una sola: che facessero un concerto degno di tal nome, suonando più pezzi possibili limitando le reprise eterne e il cazzeggio selvaggio. Che tenessero fede ad uno status che, viste le recenti produzioni, li vede saldamente al timone della psichedelia acidona (cit.) contemporanea. Che si ricordassero di esserlo, psichedelici, e uscissero dalla spirale di autoindulgenza fatta di performance cartoonesche in loop e non troppo altro. Che si ricordassero di essere i Flaming Lips, insomma, non dei teatranti che han capito come sbarcare il lunario. Vivaddio è andata proprio così, quindi posso parlarne a ruota libera bilanciando pro e contro.

Fuoco alle polveri: “Race for the Prize”. C’è chi dice che non si può dire di aver visto il rock senza aver mai sentito la E Street Band dal vivo. Io dico che non si può vantare un curriculum concertistico di sorta senza aver mai visto dal vivo “Race for the Prize” – che per la grande maggioranza dei casi coincide con il primo pezzo di un live dei Flaming Lips. Bisogna davvero essere lì sotto per capirlo, per cogliere l’euforia di quell’attacco e ritrovarsi dopo due secondi con una marea di coriandoli e palloncini giganti sopra la testa, con Wayne Coyne che ride come un bimbo e spara stelle filanti, i costumisti scelti che ballano ai lati e l’entusiasmo condiviso di chi vive lo stesso accanto a te. Siano essi fan, realisti o verginelli. In quel momento sai che il termometro segna per tutti la stessa temperatura, e che non c’è quasi nulla in giro in grado di giocarsela con quegli istanti di euforia. Si prosegue con il singalong in “The Yeah Yeah Yeah Song” ma la successiva cover pinkfloydiana fa subito capire che questa sera l’arrosto sarà servito, eccome. “Ego Trippin’ at the Gates of Hell” è l’unico ripescaggio da “Yoshimi…” mentre una carrellata di pezzi nuovi mette in fila l’artiglieria psichedelica: “Is David Bowie Dying?” e “I’m Working at NASA on Acid”, assieme a una “See the Leaves” dal coraggioso “Embryonic”, abbassano notevolmente il coefficiente di puro spettacolo alzando quello prettamente musicale. Così come dovrebbe essere, insomma.

Certo, le pause tra un pezzo e l’altro sono sempre piuttosto lunghe e l’intensità non è di conseguenza una peculiarità dei loro concerti, ma le diavolerie del sempre istrionico Coyne – la telecamera sul microfono, la bolla d’aria con cui cammina sopra il pubblico e le mani giganti che irradiano laser riverberati dalla lampada a palla sospesa sul palco – offrono la giusta scappatoia quando subentrano i difetti della performance, uno su tutti l’ormai lacerata voce del frontman. A scanso di equivoci, comunque, nettamente migliore di altre volte – altrettanto giusto sottolineare il costante supporto offerto dall’instancabile Steven Drozd .

Con la doppietta “Where Is the Light?” e “The Observer” da “The Soft Bulletin” si chiude il grosso del concerto. Wayne Coyne saluta dicendo di sperare di ritornare a suonare al festival del McDonald’s (per via dell’insegna sul tetto del fabbricato) e si abbandona anche a una lode alle patatine della catena, “al di là dei discorsi da hippie… le french fries spaccano sempre”. Restano due bis, con un’eterna “Do You Realize?” a mettere un sigillo fiabesco sulla serata, se mai ci fosse stato il bisogno di stropicciare gli occhi e realizzare per davvero che si è assistito a uno show fuori dal normale. Orecchie comprese. Un’esperienza, insomma.

(Daniele Boselli)

17 luglio 2012

photo by M.M.

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