ALABAMA SHAKES, “Boys and Girls” (Rough Trade, 2012)

Mi capita di incontrare ogni due anni circa la storia di un gruppo di amici che si incontrano a scuola: tipi semplici e senza la smodata brama di sfondare come star, che tanto pe’ cantà formano un gruppo con il cuore in mano, diverso dal resto dei plastic boys and girls dello star system, che iniziano a suonare nei pub più disparati, a farsi un mazzo così per suonare fino a tarda notte, facendosi le ossa in jam sessions che li consacrano nel circuito underground cittadino e non solo, in un crescendo di live che affina le loro qualità musicali, fino al miracolo del talent scout che li scopre sbirciando in qualche blog, e in pochi mesi, dopo martellanti campagne acclamanti li lancia, loro così giovani, così veri, nell’orbita sempre più ampia del successo.

Questa volta mi imbatto negli Alabama Shakes che già dal nome sembrano saperci fare, un quartetto di Athens, in Alabama (nei live si aggiunge il tastierista Ben Tanner) trainato dalla personalità granitica della leader Brittany Howard (voce e chitarra), che presenta l’atteso debut album “Boys and Girls”, la cosa più soul e blues rock degli ultimi tempi.

Il lotto si apre con “Hold On” acchiappante open track che fa da vernissage, dove Motown e proto garage rock si contendono senza spallate lo spazio di un letto matrimoniale comodo e noto, unione che di fatto si protrae senza soluzione di continuità per il resto delle tracce; si passa così da un brano all’altro suonando sempre la stessa nota che indica la via dell’omaggio, da “Rise To The Sun” soul rumoroso e passionale, al corporeo atto di devozione a Otis Redding che è “You Ain’t Alone”, da “Goin’ To The Party” scheletrico intermezzo di alcolica ironia alla sontuosa “Heartbreaker” che Aretha Franklin avrebbe cantato uguale uguale, o fino alla title track “Boys And Girls” che prova a strappare la pelle a Janis Joplin, e così via (segnalo “Be Mine” al di sopra di tutto il resto).

Demerito al basso di Zack Cockrell sempre spento sotto i piatti voluminosi di Steve Johnson, il chiacchiericcio vivace delle chitarre di Heath Fogg, e la voce della Howard, robusta e magnetica. Un album alla fine dei conti che omaggia con buona musica quel concreto sound dell’anima che anche se piange con tristezza fonda, a volte fondissima, non è mai disperata. E al quale si torna sempre con autentico benessere. Tuttavia il limite è compreso tutto in questa qualità omaggiante, ottima come sottofondo di gusto durante un aperitivo tra amici, o durante una conversazione in macchina mentre fuori piove. Ma purtroppo a lungo andare, tediosa e scarsamente elettrizzante. Un’operazione revival dal retrogusto sperticatamente commerciale per lanciare la buona Brittany. Scommettiamo?

59/100

(Stefania Italiano)

12 aprile 2012

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