Intervista agli …A Toys Orchestra

Una chiacchierata con Enzo Moretto – chitarra e voce della band campana – sul significato della mezzanotte. E poi la “metodologia compositiva”, il rapporto con gli indie-taliban, i Pinocchio ed i nostri zecchini sepolti nel Campo dei Miracoli.

Siete felicemente “attivi” da un bel po’, per cui è d’obbligo un bel resoconto dei ricordi della nascita del gruppo e dei suoi primi passi.
Ripensando agli esordi torna subito alla mente una gran gavetta. Cosa di cui siamo orgogliosi e che ci ha temprato senz’altro nel corpo e nello spirito. Senza tutti quei salti mortali non saremmo quelli che siamo adesso. Oggigiorno alcuni passaggi sembrano smussati e, per un gruppo, il gap tra suonare in cantina e pubblicare un disco si è ridotto moltissimo. Nell’album mentale dei ricordi mi balzano in mente registrazioni su cassetta, microfoni tenuti con lo scotch, cartoni delle uova attaccati ai muri, capelli colorati e stanzini pieni di fumo e bottiglie vuote. Uno degli aspetti di questo lavoro però,almeno per come lo viviamo noi, è che il tempo perde senso. E’ vero, intorno a noi sono cambiate tante cose e probabilmente abbiamo maggiore esperienza e prese di coscienza, ma le motivazioni che ci muovono sono le stesse di 10/15 anni fa. La spinta propulsiva, l’entusiasmo e una certa “rabbia” sono rimasti invariati rispetto a quando eravamo degli amabili sprovveduti. Percorrere questa salita un gradino alla volta ha contribuito sì a dilatare la percezione del tempo ma anche ad evitare di scivolare bruscamente all’indietro.

Qual è la vostra “metodologia compositiva” e com’è cambiata, se è cambiata, nel tempo?
Il metodo è sempre lo stesso. Io di solito scrivo musica e testi in forma embrionale, magari utilizzando solo chitarra o pianoforte e abbozzando le linee vocali. Insomma, compongo le canzoni “nude e crude”. Solo quando siamo tutti insieme decidiamo però che strada far loro prendere. Spesso uno spunto di qualcuno si rivela vitale, venga esso dalla batteria, dal sintetizzatore o dal pianoforte. Può essere l’innesco di una chiave di lettura. E’ comunque un processo del tutto collaborativo. Finanche nei pezzi più minimali e asciutti. Anche solo decidere di tenere una canzone pianoforte e voce, ad esempio, è frutto di un confronto collettivo.

Vi va di passare in rassegna i vostri dischi precedenti a “Midnight (R)evolution”?
In verità non avrei molto da dire. Non siamo nella posizione di poter giudicare il nostro operato, anche perché siamo inesorabilmente troppo coinvolti, dunque poco lucidi ed oggettivi per poterlo fare con cognizione di causa. Di sicuro c’è, da parte mia almeno, una deformazione personale che mi porta a pensare al mio passato conteggiandolo in dischi, ricollegando agli stessi sensazioni ben definite. Quando penso a qualcosa che è accaduta ne tempo la associo al titolo, al colore della copertina e all’umore del disco che era in corso. Ma è qualcosa di molto personale e specifico, per cui spiegarlo con distacco non è cosa di cui mi sento capace.

Vi ritrovate bene nel ventre della mezzanotte a quanto pare. Rispetto a “Midnight Talks”, questa che tipo di mezzanotte è? Di cosa parla il disco? Prevale uno stato rivoluzionario su quello evolutivo o viceversa?
Il “Midnight” del titolo oltre a rivelare la parentela con il suo predecessore, è anche a simbolo di una sorta di ora zero, un inizio, un punto di partenza. Nel disco il tema della rivoluzione non è affrontato mai con piglio cronistico, piuttosto è inteso come forma mentis, come un concetto in divenire, una propensione al cambiamento e all’evoluzione. Ecco spiegato anche il motivo della “R” tra parentesi.

Nel percorso che ha portato al nuovo disco, come si incastra “Rita Lin Songs”? Vi va di entrare nel merito dei pezzi che lo costituiscono?
In questo EP c’era da parte nostra la volontà di agire in modo assolutamente libero e rilassato. La sua funzionalità doveva essere quella di creare un continuum tra l’uno e l’altro disco, senza rigori di logica che ne regolassero la natura. Abbiamo pensato di sperimentare su più versanti: dalla cover che nessuno si aspettava, alla rilettura astratta di brani già editi. C’è anche qualche brano lasciato nella sua forma di bozza o dei chiari divertissement e qualche canovaccio sull’allora prossimo futuro. Abbiamo voluto creare un prodotto che annullasse ogni distanza tra noi e i nostri ascoltatori. Questa mancanza di “formalità”, addizionata alla scelta di pubblicare il tutto in forma digitale, in free download, era una sorta di “regalino” per coloro che ci hanno sempre incoraggiato.

Tornando al nuovo disco, ci sono pezzi che desiderate “arrivino” più di altri o attraverso i quali veicolate i “messaggi”, sia sonori che concettuali, a cui al momento tenete di più?
Non avrebbe senso dare maggiore importanza ad un brano piuttosto che ad un altro. Presupporrebbe l’esistenza di “riempitivi” o canzoni di “serie b”. In un libro se salti un capitolo è probabile che perdi il bandolo della matassa. Nei dischi è uguale.

Davvero interessante il contrasto elettro-acustico e l’utilizzo dell’autotune in “Aphelion”.
Si? Dici??? Beh, gli indie-taliban volevano la nostra testa quando hanno sentito l’autotune nella voce (risate)

Chi sarebbe il Pinocchio della canzone omonima?
Un testa di legno, incurabile bugiardo, sfacciato e a cui, ad ogni menzogna, al posto del naso gli si allunga il pisello. Ti fa pensare a qualcuno? Beh, tanto ormai ha fatto i bagagli. Oddio, chissà… non parlerei troppo presto. Ho il timore che “quello lì” sia più Terminator che Pinocchio. Ma a onor del vero la canzone non è un tributo ad una persona in particolare e neanche a “quella” persona. Diciamo però che una certa condotta non può che rimandare l’immaginario al suo maggiore esponente. Volendo vederla sotto un’altra ottica, anche noi  stessi in questo momento storico siamo tutti un po’ dei pinocchi. Nella situazione economica in cui versiamo, i nostri soldi fanno la stessa fine degli zecchini nel Campo dei Miracoli.

E tra “Babilonia” e “Nigthmare City”, si nasconde una sorta di indicazione sullo stato delle cose riguardo l’ “urbanità” mondiale attuale? Un po’ in ogni pezzo si avverte una certa maestosa decadenza.
Una decadenza che è sempre più peculiare di una modernità al collasso. La crisi (non solo economica)  che imperversa in tutto il globo, è il sintomo più evidente del cedimento strutturale della società odierna. Tira aria di cambiamento è vero, ma comporterà non pochi sacrifici.

Come gestite e quando sentite sia il caso di utilizzare l’alternanza vocale maschile/femminile?
E’ una questione di intuito. Bisogna saper cogliere quelle sfumature che maggiormente si prestano all’uso di una o dell’altra tonalità di voce. Talvolta, semplicemente, assecondiamo il mood della canzone, altre cerchiamo volutamente il contrasto. Ad esempio in “You can’t Stop Me Now”, l’intervento vocale di Ilaria permea di malinconia e dolcezza la canzone prima che questa venga spezzata dal mio incedere più energico e “incazzoso”. Una scelta che rispetta le dinamiche e i movimenti della composizione. In “Nightmare City”, invece, nonostante il timbro delicato, la voce femminile tesse un passaggio scuro molto serrato e incalzante, creando quindi un effetto meno scontato. Insomma, alle volte è una cosa che va per conto suo, altre è frutto di prove e tentativi.

Com’è nato il vostro rapporto con Ala Bianca?
Attraverso Urtovox che ha cercato e trovato una partenership atta a progettare un ulteriore “upgrade”. Con Ala Bianca c’è stata subito un ottima intesa, sia professionale che etica.

L’artwork è piuttosto semplice ma esplicativo e “forte”. Come si è sviluppato e in che modo si relaziona al disco?
Credo che l’artwork di un disco non sia meno importante delle canzoni in esso contenute. Quando abbiamo deciso di mettere in copertina la foto di una ragazza con il naso incerottato con le scritte “democrazia”, c’era un manifesto molto chiaro che si integrava sinergicamente con il messaggio lirico delle canzoni. Non credo che questo scatto abbia bisogno di essere spiegato con troppo raziocino. E’ un’immagine che si racconta da sé e probabilmente nel provare a darne una interpretazione univoca la si espone al rischio di svilirne la forza onirica. Tutto l’artwork è stato realizzato con Alessandro Tricarico, fotoreporter pugliese conosciuto a Bologna e autore di tutti gli scatti. Abbiamo lavorato gomito a gomito per nottate intere e man mano che cover e booklet si delineavano, di pari passo crescevano amicizia ed affiatamento. Oggi siamo ottimi amici e ci frequentiamo giornalmente. Abbiamo condiviso molto più che un semplice lavoro.

(Giampaolo Cristofaro)

foto di Annalisa Russo al Calamita di Cavriago (RE) – www.annalisarusso.it (vedi tutto l’album)

27 dicembre 2011

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