COLDPLAY, “Mylo Xyloto” (Emi, 2011)

Lo so, per molti i Coldplay giocano da tempo in un altro campionato, quello dell’inesistenza-pop che emerge dalle radio e dai luoghi dove sei costretto ad ascoltarli mentre tu proprio non vorresti. I più snob li hanno lasciati, volentieri, a tutta la massa indistinta di quelli che “Cosa ascolti? Quello che passa in radio, un po’ di tutto” ma, a ben analizzare con un minimo di orecchio oggettivo, fino ad oggi la band di Chris Martin non aveva ancora svaccato del tutto, e anzi si era dovuto ammettere che l’ultimo “Viva La Vida” – pur rasentando una pericolosa u2-izzazione – aveva messo in capo una più che dignitosa classe pop sia a livello di qualità delle composizioni che, soprattutto, a livello di arrangiamenti, più sobri e distinti di quello che ci si sarebbe aspettati.

Stavolta, invece, c’è il crollo totale.

“Mylo Xyloto” si candida per essere la unofficial colonna sonora di un film alla “Avatar” tutto effetti speciali e naturalismo spiccio con buona morale (trita e ritrita), lascia stare la natura, siamo tutti buoni, domani sarà un giorno migliore. Si respira un’atmosfera da foresta tropicale ricostruita nella piazzetta del centro commerciale condita da talmente tanti “oooooooooooooo oooo oooooooooo ooooooo” che neanche Ligabue avrebbe osato propinare ai suoi fans. Anzi, ci si immagina il ghigno un po’ intontito di Martin mentre li compone e sorride a mezza bocca ululando e pensando alle masse da stadio che li urleraranno ai live, concerti da viversi come la scampagnata domenicale della famigliuola del Mulino Bianco.

Chi scrive ha amato i Coldplay, ma non può sopportare proprio questo sound confezionato per i grandi magazzini, i versi come di finti animali in 3D dell’inizio di “Charlie Brown”, i suonettini pi-ti-pi-ti-pi che scimmiottano i Friendly Fires di “Hurts Like Heaven”, le pericolose virate alla Simbolum 77 di “Us Against The World” e “U.F.O.” che fanno rimpiangere i canti della parrocchia e ci fanno dire che, sì, a confronto alla Messa suonano probabilmente delle canzoni punk. I Coldplay di oggi utilizzano infatti soluzioni nelle quali nemmeno i Datura si avventurebbero per mantenere un minimo di dignità (il riff di tastiere di “Every Teardrop is A Waterfall”), spingono al massimo la cassa continua nemmeno fossero, appunto, in una pista da discoteca (“Don’t Let It Break Your Heart”) e, insomma, fanno tante cose per cui artisti minori non si farebbero più vedere al bar per molto, molto tempo.

Rimangono, perse in questo marasma indistinto, tronfio e megalomane, due canzoni da salvare come “Major Minus”, dove si risente distintamente la chitarra (!) e le armonie volteggiano in direzioni che potremmo definire vagamente coeve alla roba di “Parachutes”, e – sorpresa delle sorprese! – la canzone in cui collabora Rihanna (“Princess Of China”), in cui l’andamento e i suoni tradiscono un certo zeitgeist abbastanza di gusto.
Che debacle, cari Coldplay, se vi fate vedere ancora in giro noi iniziamo a prendere definitivamente la grappa in un altro bar.

25/100

(Paolo Bardelli)

24 ottobre 2011

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