THE DODOS, “No Color” (Frenchkiss, 2011)

Va detto chiaro fin dall’inizio, non è mai stata musica per tutti quella dei Dodos e probabilmente mai lo sarà. Esiste un qualcosa di profondamente criptico nelle agrodolci melodie forgiate dal talentuoso duo formato da Meric Long e Logan Kroeber, qualcosa di istantaneamente accattivante eppure di non facilmente decifrabile.
Gli elogi sperticati portati a casa con “Visiter” qualche anno fa, se da un lato servirono ai Dodos per farsi un nome nel settore, dall’altro non furono sufficienti alla band di San Francisco per uscire da quella nicchia indie (che più indie non si può) che fagocita moltissime band dall’indubbio talento.
Ed ecco che il loro ultimo lavoro, “No Color”, edito alcuni mesi fa da Frenchkiss, pur distinguendosi per un contenuto artistico molto al di sopra della media, si colloca su un piano ancora più esclusivo per via dell’imperscrutabilità dei suoi contenuti.

Le nove canzoni dell’album sembrano provenire da un a sorta di dimensione parallela, un non-luogo in cui malinconia e gioia non sono più contrari, ma si fondono in unico fluire emotivo, dove i fremiti diventano razionali e la fantasia trova nel bianco e nero la sua massima espressione.
No Color, per l’appunto.

Le poliritmiche aggrovigliate ed i tecnicismi quasi ostentati dei brani in scaletta si sposano magicamente con un’immediatezza sonora in grado di strappare un malinconico sorriso non appena la musica fa la sua comparsa in cuffia.
Succede così che i rintocchi di batteria e gli arpeggi infiniti di un brano ammaliante come “Black Night” sfumino nell’intangibile dolenza di “Going Under”, una non-ballata impetuosa nata per smuovere dal loro torpore le anime introverse a cui è dedicata.
Basterebbero le stratificazioni emotive e strumentali di questi due brani a scrivere nella pietra la biografia di No Color, album che si nutre contemporaneamente di impetuosi algoritmi (“Good”), sinuose sinfonie dolceamare (“Don’t Tride And Hide It”) e impalpabili movimenti semiacustici di chiara discendenza brianwilsoniana (“When Will You Go Home”).

I continui vezzi tecnici che caratterizzano i singoli brani si snodano labirintici in perfetto connubio con la limpida voce di Meric Long e le luminose melodie che quest’ultima è in grado di dipingere. Ciò nonostante il messaggio di queste armonie rimane sfuggente, indefinito, intellegibile solo per chi crede che i colori non siano necessari per disegnare su carta i tratti delle emozioni.

Una panchina solitaria in un parco affollato, una corsa leggera in un pomeriggio soleggiato, un momento qualsiasi in una giornata qualsiasi, la musica dei Dodos è adatta ad ognuno di questi attimi, a tutti ed a nessuno.
Serviranno molteplici ascolti per perdersi completamente nella profondità melodica di No Colors, ma anche allora questo disco rimarrà in qualche modo un oggetto arcano, così lontano eppure così vicino.

74/100

(Stefano Solaro)

28 luglio 2011

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