PATRICK WOLF, “Lupercalia” (Mercury, 2011)

A volte il mestiere di giornalista mette davanti a compiti quantomeno ingrati, mettendo a dura prova le ragioni del cuore e costringendole a sottomettersi a razionalitá ed obiettivitá.
Ecco quindi che il compito ingrato di stroncare un artista che si é sempre apprezzato (eufemismo) diventa impresa ardua, se non quasi impossibile, quando tale musicista rappresenta una delle poche certezze su cui fare affidamento in un panorama musicale gonfio di stimoli ma orfano, salvo rare eccezioni, di figure guida su cui fare sicuro affidamento, quelle da poster fisso in camera per intenderci.
Nel bel mezzo di quella che si avvicina ad una vera e propria crisi di coscienza, ecco arrivare peró le prime ruffianissime recensioni utili a dare quella spinta che serve per far prevalere la ragione sul sentimento.

Ebbene sí, prima ancora dell’uscita ufficiale di “Lupercalia”, quinto album in studio di Patrick Wolf, giá si sprecavano le lodi della stampa internazionale, tutta impegnata ad attribuire voti altissimi ed elogi sperticati a quello che rappresenta invece, a parere di chi scrive, il peggiore album pubblicato fino a questo momento dall’ormai ex enfant prodige della musica britannica.
Detto ció é necessario fare subito una precisazione: Lupercalia non é un album completamente da buttare.
Il talento di Mr. Wolf é oggettivo, e la sensazione che anche impegnandosi il buon Patrick non potrebbe andare sotto un certo livello di scrittura é confermata in pieno da alcuni brani sparsi in giro per l’album.
Ció nonostante, evitare di ammettere che la sua ultima fatica sia nettamente inferiore a tutti i suoi illustri predecessori, equivarrebbe al nascondere la testa sotto la sabbia, letteralmente.

In “Lupercalia” é l’intero concept artistico del polistrumentista britannico a subire un nettissimo cambio di rotta. Fin qui niente di nuovo, si potrebbe obiettare, in quanto il buon Patrick ha sempre fatto del camaleontismo musicale e della mescolanza dei generi il proprio marchio di fabbrica. In che misura peró il suo ultimo lavoro si distacchi da quanto prodotto dall’artista londinese in passato, lo si puó evincere dalle influenze citate nel comunicato stampa della Mercury (ebbene sí, dopo l’autoprodotto “The Bachelor” anche lui non ha potuto resistere al richiamo di una major). Vedere il suo nome accostato a quelli di Madonna, Princee Pet Shop Boys provoca qualche brivido, inutile negarlo, e poco importa se subito dopo vengano citati anche gli Smiths o i Pulp, il danno ormai é fatto.
Da pura celebrazione della felicitá e della “joy of life” che Patrick Wolf sta assaporando in questo particolare momento della sua vita (ben per lui!),”Lupercalia” tracima purtroppo in un’opera troppo spesso melensa e banale, a tratti quasi fastidiosa nella sua tronfiezza orchestrale.
Una produzione rifinitissima, un’esemplare prova vocale, assoluta protagonista del disco, oltreché la solita ricchezza strumentale, non sono sufficenti a levare di dosso la sensazione che sia il songwriting a rappresentare il punto debole del disco, soprattutto se paragonato alla genialitá compositiva riscontrabile negli album che l’hanno preceduto.
Certo non sará facile trattenersi dal canticchiare il ritornello di “The City” o l’apertura di “House”, ma se si prova anche solo per un momento ad accostarle ad un brano a caso di “The Magic Position”, piú volte tirato in ballo come termine di paragone per questo disco, beh il confronto é impietoso. Ma non sono solo due dei tre singoli pubblicati fino ad’ora a rappresentare un colpo al cuore per ogni fan che si rispetti, quanto piuttosto pezzi come “The Future”, pseudo-inno orchestrale dall’incedere altezzoso e scontato, o come “Slow Motion”, nella quale il vecchio acronimo di folktronika, coniato per descrivere la musica di Mr. Wolf, declina in un ampolloso pasticcio orchestrosynth, ulteriormente abbruttito nel finale da inspiegabili ululati.
Se alla delusione per alcuni dei brani piú brutti scritti fino adesso dal Nostro aggiungiamo inoltre un paio di composizioni mediocri come “Armistice”, a metá strada tra Elton John ed un Morrissey in giornata storta, o “Falcons”, niente di piú che un’allegra marcetta mid-tempo, ecco che la doccia fredda é servita.
A salvare “Lupercalia” dalla stroncatura totale e gli appassionati da un brutto sogno dal quale sembrava difficile svegliarsi ci pensano i violini della bellissima “Time Of My Life” , tranquillamente annoverabile fra i classici del musicista britannico, il fine lirimso pop di “The Days” e il pulsante incedere dei synth di “Together”.

Otto anni sono trascorsi ormai dall’abbagliante esordio di “Lychantropy” e Patrick Wolf, nel frattempo, ha fatto troppo per la musica contemporanea per meritarsi un votaccio alla prima manciata di brutte canzoni.
Ben venga dunque la (quasi) sufficienza di stima, con la speranza che il pallido romantic pop di “Lupercalia” possa venire annoverato in futuro solo come una parentesi un po’ sbiadita di una luminosa carriera.

58/100

(Stefano Solaro)

28 giugno 2011

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