THE KILLS, “Blood Pressures” (Domino, 2011)

A rileggerlo fa un certo effetto perché ancora non ci si rende conto di essere entrati in un nuovo decennio, ma quando penso che il debutto dei Kills veleggia ormai verso i quasi dieci anni l’impressione è che il 2003 sia invece passato da dieci minuti. Eppure erano anni decisamente diversi: il nuovo millennio – in particolare all’ombra del Big Ben – sputava fuori gruppi a ripetizione, next big thing a tutto andare e nomi che per lo più sono scomparsi nel nulla più assoluto. E succedeva che allora i Kills avessero davvero tutte le carte in regola per non essere solo una bella speranza: duo maschio e femmina decisamente cool e un sound abrasivo che si elevava dalla wave di Strokes e nipoti, tanto che nel calderone delle nuove proposte sembravano essere gli outsider per antonomasia, i brutti anatroccoli che raccoglievano la fanbase di esuli dalle pettinatrici. Cool, già. Nonostante qualsiasi cosa propinassero certe riviste fosse cool per definizione (per loro, logicamente), è innegabile che i Kills possedessero gli ingredienti giusti per vendere. Due sex symbol sul palco, oltretutto parecchio drogati, a incrociare voci e corpi con una chimica accattivante e fascinosa. E poi c’era la musica. Ricordo un’intervista in cui Hotel diceva che la musica dei Kills non la suonava nessuno in giro, e aveva ragione. Un garage rock minimalista e allo stesso tempo schizofrenico, con quell’attitudine sporca e rumorosa che con certe pose era semplicemente destinata a collidere. Cose che oggi sembrano essere totalmente uscite dal loro universo.

Tanto vale cavarsi il dente: nonostante mi sia capitato di leggere recensioni quasi solo positive, io proprio non ce la faccio. Il timore che il fiacco “Midnight Boom” non fosse solo un incidente di passaggio si rivela in questo quarto album in tutta la sua cruda realtà. Se il penultimo disco si manteneva però ancora coeso nella sua idea di fondo, questo “Blood Pressure” pare solo navigare pericolosamente a vista. Ai Kills sembra essere venuto meno quel fuoco che li animava e che suppliva alla carenza strutturale di essere in due, sbattendoti in faccia la loro musica senza tanti fronzoli. Ora sembra che l’obiettivo sia mostrarsi finalmente maturi. Come se fosse un pregio per definizione, poi. In dodici tracce che raramente mordono io ricordo soltanto il riff e l’andi malaticcio di “Baby Says”, l’attacco di “Nail in My Coffin” – ma ci si ferma lì – e il crescendo finale della conclusiva “Pots and Pans”. In mezzo tanta, troppa maniera che suona priva di personalità, mettendo a nudo una formula che senza adeguate canzoni si rivela essere drammaticamente vuota. “The Last Goodbye” poi sembra la novena di Natale che si cantava a catechismo da piccoli, quelle cose cariche di spleen che fuori da una chiesa però anche no. Cambia la forma, trattandosi di una ballad piano e voce, ma la sostanza la si cerca con binocolo. La morale mi sembra non ci sia bisogno di metterla ulteriormente per iscritta, la speranza sì: ringiovanite.

45/100

(Daniele Boselli)

2 maggio 2011

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