JOSH T. PEARSON, “Last Of The Country Gentleman” (Mute, 2011)

Josh T. Pearson, probabilmente suo malgrado, si è trasformato negli ultimi tempi nel personaggio più citato e chiacchierato dalla plebaglia indie-rock. Coreuti in quest’orchestrazione di pettegolezzi e pregiudizi ipocritamente culturali sono il suo nuovo album solista (pubblicato dopo una decina d’anni di silenzio), assolutamente seducente e affascinante, e la romanzesca (o romanzata) storia della sua vita, narrata con trasporto e passione da blog, interviste e riviste di mezza Europa.

All’inizio del 2000 i Litf To Experience rappresentarono con la loro breve e misteriosa avventura discografica un caso di straordinaria bellezza nel panorama rock, a metà strada tra lo shoegaze e il christian rock, la sperimentazione indie e la tradizione southern. Il loro capolavoro “The Texas-Jerusalem Crossroad” (doppio concept album del 2001) è una vera e propria gemma del rock indipendente americano, un disco che in pochi anni ha raggiunto, grazie al passaparola e alle lodi di John Peel, lo status di culto. A guidarli c’era Josh T. Pearson, inquieto e malinconico songwriter americano e visionario chitarrista devoto al feedback, il quale dopo il piccolo successo di “The Texas-Jerusalem Crossroad” decise di sciogliere la band, convinto di non poter replicare o dare seguito al risultato artistico raggiunto con quel concept. Da quel giorno, sino alla pubblicazione di “Last of The Country Gentleman” (2011, Mute), sono passati dunque dieci lunghi anni. Un periodo, si dice, di grandi travagli interiori, di alcolismo, crisi sentimentali, crisi religiose, crisi esistenziali, lavori di merda, solitudini, angosce, paranoie, laceranti sensi di colpa e strazianti disperazioni personali. Rifugiatosi nel deserto texano, Pearson aveva deciso di smetterla con la musica e le velleità da rock-star, per ritrovare se stesso e rileggersi, in tutta quiete, l’Antico Testamento. Il cantautore americano, però, ci racconta, di come fortunatamente, non riuscì mai veramente a sconfiggere la sua istintiva mania musicale, continuando, più o meno metodicamente, a scrivere canzoni e a suonarle, armato di una sola chitarra acustica, per se stesso, o per pochi amici. Si trattava di lunghe lamentazioni blues e toccanti ballad folk, dense e disperate, capitoli di un’intensa autobiografia spirituale, dal tenore gospel e sacrale. Invitato a sostenere un piccolo tour europeo di spalla ai Dirty Three, Pearson decise, poi, di registrare questi brani e di regalarli al mondo, riemergendo, in qualche modo, dalla sua lunga catabasi artistica. Due notti in uno studio berlinese bastarono a compiere il miracolo, o la prolissa scempiaggine, su cui oggi tutti gli sfigati senza un cazzo da fare sentenziano.

Nasce così “Last of The Country Gentleman”, un disco composto di sette lunghe canzoni, strutturalmente nude (com’è tanto di moda descrivere le canzoni acustiche al giorno d’oggi), ossia essenziali e minimali, ma contenutisticamente verbose fino all’eccesso: pochi ispirati accordi, colmi di sentimento e trasporto, a cadenzare il ritmo – lento – di una confessione religiosa, che tiene insieme tradizione blues, atmosfere country, attitudine grunge e melanconia folk-rock, in una connessione di pensieri ed emozioni di terribile profondità emotiva. Una specie di Mark Lanegan, dai toni più isterici, spiritualmente evangelico, ma in profumo di eresia manichea. Ciò che caratterizza il contenuto delle canzoni di Pearson è, infatti, la costante e sincera drammatizzazione di una lacerazione individuale, la compresenza di bene e male, speranza e disperazione, fede e disillusione totale. È in scena l’umanità spoglia di qualsiasi vanitoso velo ideologico ed estetico, di fronte allo specchio deformante del peccato: l’uomo solo con la sua chitarra e la sua insensata storia di fallimenti e dolori, aspirazioni ed errori. E dato il tipo è facile prevedere su cosa siano concentrate le sue autoanalisi cantautoriali: sulla femmina e su Gesù Cristo. Chiodi fissi, che tengono, appunto, crocefisso l’uomo alla sua ingiustificabile e scomoda esistenza. La figura divina è evocata e invocata con la delicata confidenza del disperato, senza retorica e senza inibizioni culturali. La femmina è accarezzata o aggredita da parole dolci o avvelenate, ma sempre consapevolmente colpevoli e riflessive Si parla, si canta e si borbotta, di Dio, ma anche del diavolo, della fede e un attimo dopo di lussuria e indolenza alcolica. E lo si fa con la lirica sensualità dell’angoscia, attraverso melodie monocordi ed essenziali, per questo lontane dalla leziosità autoindulgente di un Jeff Buckley o dalla pretestuosa cupezza di un Nick Cave (da murder ballad).

Tutto è sorretto da fragili accordi di chitarra, da tocchi delicati, o improvvisamente più rabbiosi e profondi, e da silenzi, come nell’iniziale elegia metafisica di “Thou Art Loosed”, o nel blues dannato di “Sweetheart I Ain’t Your Christ”, una lunghissima meditazione folk minimale, messa lì per scoraggiare gli ascoltatori meno attenti o più impazienti. Un attacco, appunto, in bilico, tra Red House Painters e il Cobain più catalettico dell’unplugged, dove il cantautore sciorina motti strazianti che, anche se non faranno storia, meritano almeno una citazione: “And when I said I’d give my life, I weren’t talking suicide”. E quando l’ascolto si fa più arduo e alienante interviene salvifico il violino dell’immenso Warren Ellis. Note glaciali e ricami commoventi nobilitano il lento bluegrass di “Woman, When I’ve Raised Hell” e la ballata apologetica intitolata “Honeymoon’s Great! Wish You Were Her”. In tanta rarefazione la musicalità drammatica di Ellis rivela una potenza cromatica inimmaginabile, ossia oltre il già elevatissimo standard svelato dai dischi di Nick Cave e dei Dirty Three. In “Sorry With a Song” Pearson, travestito da un Roy Harper ancora più depresso, torna a scusarsi con la ragazza, che deve averlo mollato, ammettendo le sue colpe con un arpeggiato soliloquio-flusso di coscienza, dolente e leggermente schifrenico. Più americano e suddista l’accenno di melodia di “Country Dumb”, dove la chitarra s’intreccia a un violino tanto folk quanto triste, polveroso e malinconico come il crepuscolo del deserto. Ogni canzone pare legarsi alla precedente continuando o esasperando la tensione emotiva delle composizioni, in un crescendo potenziale che mai si esprime o si rende concreto attraverso cambiamenti o movimenti d’atto. La finale “Drive Her Out” è il brano più breve ma anche più oscuro dell’album, percosso da un addolorato pianoforte, quasi percosso con dita nervose e inquiete, su cui la voce riverberata del cantante scivola e indugia con dolce rassegnazione conclusiva. Ammetto che in giornate no un disco del genere potrebbe rivelarsi una vera e propria mazzata sul collo, ma noi masochisti della coscienza, cresciuti a Southern Comfort e Neil Young, a Gozzano e cassettine da Commodore 64, abbiamo le spalle larghe e sappiamo di avere bisogno di certe autoflagellazioni, perché ci fanno bene, o proprio male, ma in modo più sensato di quel male triviale e stupido in cui siamo soliti immischiarci.

85/100

(Giuseppe Franza)

20 aprile 2011

1 Comment

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *