Intervista ai No Age

Wavves, castle-punk, la scena-non-scena californiana. Questo e altro con D.A. Spunt (voce, batteria) e Randy Randall (chitarre), artefici di uno dei duo più significativi dello scorso decennio. I No Age sono tornati in Italia per presentare il nuovo album.
“Everything In Between” (pare veramente la quadratura del cerchio per l’incendiario duo di Los Angeles. Rilassata conversazione accompagnata da varie bevute con due buontemponi californiani con immancabile camiciona a quadri, trentenni ma carichi come degli esordienti. Nell’abbaino che funge da camerino al Covo di Bologna tappezzato di poster autografati dalle band passate per lo storico club bolognese. Cercano di staccare quella di Mike Watt, senza successo. Il live sarà devastante come prevedibile. Sarà appagata la massima aspirazione di shoegazer in erba o navigati di uscire dal concerto con la sgradevole sensazione di aver perso l’uso di un orecchio. Un’ora e un quarto di tempesta sonica. Dalle nuove gemme che hanno riconfermato il successo di “Nouns” alle inquiete instantanee da nipoti bastardi degli Husker Du. Dean Allen Spunt e il socio Randy Randall a fare da Kevin Shields con chitarre urlanti. Le sassate del batterista-vocalist annichiliscono il Covo. Anche senza basso si può fare tutto. Anche perché il collaboratore Facundo con gli effetti riesce a riempire le residue intercapedini sonore. Le proiezioni che avvolgono ogni parte del palco fanno il resto. L’iniziale medley “Life Prowler”con uno degli inni indipendenti degli anni duemila, ”Teen Creeps”, scatena l’apocalisse. I volumi non si abbasseranno mai. Via via lungo le traiettorie epilettiche di “Eraser”, “Cappo”, “Brain Burner”, l’intensa “Here Should Be My Home”. Manca “Things I Did When I Was Dead”. Ma il violento show scivola infine su “Miner” con l’amplificazione del Covo che sembra non reggere più all’urto. La chitarra di Randall abbandonata a se stessa prende vita in solitudine mentre i due hanno già lasciato il palco.
Ma tornando al pomeriggio, mentre gli Abe Vigoda ultimano il soundcheck….

Tutto bene?
Dean Allen Spunt: Alla grande
Vi piace il posto? Secondo me è il miglior club italiano.
D: Ce l’hanno detto. Sembra veramente figo. Niente backstage, contatto diretto col pubblico. Location intima, ma relativamente spaziosa. Da vero club. E’ la prima volta che veniamo qui. Sarà una gran serata. Vorremmo ripagarci dell’esibizione di ieri a Torino. Abbiamo avuto dei problemi e abbiam dovuto fare di tutto per divertirci. Comunque ci è riuscito. Come al solito.

Prima domanda.Come ho scritto nella mia recensione vi siete scrollati di dosso l’ingrato accostamento alla presunta scena shitgaze. Anche perché l’album è più strutturato e multiforme rispetto ai due precedenti. Non è una vera propria domanda, ora che ci penso. Vabè, che ne pensate?
D: Concordo.
Randy Randall: Concordo.

Senza necessariamente dover ricorrere a etichette eccentriche, penso a quella usata da Paul Thompson su Pitchfork, dream-punk… in che modo e in che direzione credete si sia evoluto il vostro sound nel processo compositivo? “Everything In Between” suona più introspettivo, meno immediato, ma la vostra carica punk non è rimasta in soffitta.
D:Lascerei perdere etichette assurde come quella. Ahah. Orribile.
R:Sono convinto che abbiamo cercato di comporre in un’ottica più pop. Abbiamo cercato nella maggior parte dei brani di dare una sorta di forma canzone. Poi come al solito finisci per tenere dentro quello che funziona e lasciare il resto fuori, senza forzature verso la struttura pop e la direzione opposta. Un po’ la nostra via alla forma-canzone senza snaturarsi.
D:E’ così, più struttura, più ricerca compositiva che in passato.

Concordo. A parte brani quali “Fever Dreaming” e “Depletion” pervase dal furore di “Weirdo Rippers” e “Nouns”, credo abbiate raggiunto una dimensione propriamente No Age. Suonate come i No Age, punto. Certo, parlando di influenze è inevitabile che non siano mancate. Io avverto qualcosa dei My Bloody Valentine come e forse in misura maggiore del precedente album.
D: Penso il contrario. Nell’ispirazione, chiamiamola così, o negli ascolti che ci hanno ispirato, c’era molto più My Bloody Valentine in “Nouns”. Non saprei.
R: Anche secondo me. L’ambient e in un certo senso quelle sonorità sperimentali fatte di sample potenti e avvolgenti pervadono il disco.
D: Ci sono troppi album meravigliosi. A volte ti perdi in una canzone. Diventa come una pittura a schizzi difficile da descrivere razionalmente. Fino ad arrivare alla canzone. Ho ascoltato molta roba distante dal punk e dall’hardcore. E questo penso che in qualche misura abbia inciso nella composizione e negli esiti della scrittura. Quando i cannabinoidi.

Dal vivo, però il vostro approccio sembra tutt’altro che allontanato dal punk. Ho avuto occasione di vedervi in un contesto diverso dai piccoli club, al Primavera Sound di quest’anno sul palco Pitchfork. Beh, l’assalto è stato devastante come da vostra abitudine. Non farete più video che vi costano 80 centesimi (n.b. Here Should Be My Home), siete passati sotto la potente SubPop, eppure dal vivo sembrate ancora i giovani esordienti No Age. Come carica.
D: Assolutamente. Siamo cresciuti ascoltando hardcore-punk. E non lo rinneghiamo mai. Non vogliamo che la gente si annoi. Suoniamo duri e ad alto volume. E non mancano i classici suonati come li suonavamo in passato.
R: Si. Anche se diamo diventati più riflessivi in studio, sul palco continuiamo a comportarci come in passato, senza vergogna. Poi dipende sempre dal tipo di platea.
D: Però ovviamente nei nuovi brani c’è qualcosa di più interessante, spaziale, un suono più pieno. Più riverberi.

Dream-punk?
D: Ahah. Magari sì. Nel senso che facciamo fare dei gran trip alla platea. Molti show e film, anche tante canne hanno influenzato questa dimensione dei No-Age.

Molto sinestetica.
D: Già.

A proposito di ciò. Siete noti per le vostre esibizioni in location insolite. . Non intendo solo al The Late Show with Craig Ferguson alla CBS quando han fatto togliere a Randy la t-shirt di Obama. Penso a ristoranti etiopi, strade, piccoli parchi. Avete mai pensato a un progetto audio-visuale, tipo musicare dal vivo uno spettacolo o qualcosa di simile? Proprio in quest’ottica pluridimensionale.
R: Abbiamo suonato come abbiamo scritto sul nostro myspace in tanti posti strani (Indian Buffet Slumber Party, VEGAN BBQ, Kegger, Community Center, Gay and Lesbian Teen Center, Retirement home, VA, Jewish Community Center, Club House, Squat, Converted minimall/anarchist meeting house, Stadium, Gallery, Underground Comic Store, VFW, Medicinal Marijuana Co-operative, Asylum, Boat House, Mexican restaurant, Lebanese Cultural Center)In questo tour.
D: Abbiamo molti amici che lavorano sui visual. Una nostra socia ci segue in tour e cura il visual dal vivo oltre che gli effetti luci. Un bel tour a tema nei castelli ci starebbe bene. Ma non credo sia possibile. (risate)

A proposito di California e Los Angeles. Esiste veramente una contro-scena di risposta a quella di Brooklyn? Pensate ci sia qualcosa di valido in giro?
D: Non c’è uno stile vero e proprio comune. Diciamo, sembrerà banale, che mi piacciono le band che produco. Su tutti gli Infinite Body (n.b: venuti fuori a marzo con “Carve Out The Face Of My God”, uno dei must di quest’anno), un gruppo di ragazzini con cui abbiam fatto uno split, “Bored Fortress”, in uscita in questi giorni. A.R.N. Gli Abe Vigoda che ci aprono le date, senz’altro. Ce ne sono tante, ma penso che il bello sia la mancanza di uno stile. Di un mood comune. Cosa che succede a Brooklyn.E’ meno circoscritta come area, c’è Santa Monica, Pasadena con buoni gruppi emergenti.

Parlando di California in generale, si fa gran parlare dei Girls, dei Morning Benders, ma soprattutto di Wavves. Cui spesso siete ingenerosamente associati, come genere. Vi piace?
D: No.
R: No.
D: Penso in definitiva che sia una testa di cazzo. Fuori di testa. Poi, molti lo associano a Los Angeles quando viene a tutti gli effetti da San Diego.
R: Un personaggio inutilmente eccessivo, diciamo. Affari suoi, non ci interessa.

Passando ad altro. Avete dichiarato di voler creare un logo potente ed efficace come quello dei Ramones o dei Misfits. Credete che questo rientri nella logica tradizionale del LP? E’ ancora possibile nell’epoca del download avere un buon seguito di ascoltatori pronti a recepire il disco nella sua organicità?
D: Assolutamente sì. A volte alcune band vengono ricordate per un singolo. Ma penso che ci sia sempre alla base la volontà di fare un lavoro completo, fatto di artwork e tutto il resto.
R: Penso a Neil Young. Astrai una traccia dal contesto di “Harvest”. E pensi, sì. Bella canzone, ma inserita nel concept dell’album assume tutto un altro valore.
D: Esatto. Secondo me quando c’è la qualità le stesse canzoni diventano dei capolavori se intese nella totalità dell’LP.

Come nel vostro nuovo album, credo. Molto più che nei primi due dischi, in cui i brani sembravano meno legati da una logica e da un suono a suo modo uniforme.
D: Sono d’accordo. L’abbiamo voluto fortemente. Per questo dobbiamo ringraziare il nostro amico e collaboratore per il design, Brian Roettinger.
R: Già. Detesto la logica dello shuffle. Amo ascoltare un album per intero. Sai una cena tra amici. O mentre ti rilassi nel fare qualcosa. Il LP ha un fascino immortale.
D: La maggior parte delle band che amo sono album-band più che one-song-band.
R: Che cazzo di delusione quando scopri una band per un pezzo e poi manca l’album figo.
D: Succede a un sacco di band.
R: Oggi non lo so, dico in passato.
D: Si, lo ritengo un mistero, ma non è così raro.
R: Resta una cosa assurda, ci rimani veramente di sasso.

(I due simpaticoni discutono per 2 minuti su un cantautore delle loro parti misconosciuto di cui non colgo il nome, mi fingo dunque interessato e informato)

Album di quest’anno che meritano?
R: Dura, durissima. Personalmente ascolto tanta roba vecchia.
D: Dico sempre Infinite Body. E’ triste che nell’epoca post-Nirvana sia diventato tutto un puttanaio. A chi più cerca di accaparrarsi le simpatie del produttore o del discografico di turno. Lo so perché faccio anche questo nella vita. Ognuno vuole una fetta della torta. “Ehi, discografico, prendi me, quanto siamo fighi, dai prendi noi”. Top 40? Classifiche. Non contano un cazzo. Esistono altri canali per la notorietà.

Per finire, come sta andando il tour? Avete notato delle differenze nei vari paesi europei rispetto agli States, dove avrete ovviamente un seguito maggiore. Soprattutto negli ultimi anni, col vostro nome che gira da un po’.
R: Penso che dipenda sempre dalle venue.
D: Gli italiani di certo sembrano quelli più riservati. Meno spontanei. L’ho notato ieri. Sembra che uno che ascolti musica meno mainstream, non possa dimostrare di divertirsi. Vi prego, stasera. Fate un po’ di casino nelle prime file. (n.b. Invito poi accolto). Dalle nostre parti, sembra sempre una festa. In Europa è più dura, soprattutto in Italia (risate). Una sola soluzione: suonare nei castelli.
R: CASTLE ROCK

O Castle-Punk.
(risata collettiva) R e A: Vogliamo essere ricordati come una band castle-punk.

(Piero Merola)

13 dicembre 2010

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