AA.VV. – Primavera Sound 2010 (Barcellona) (venerdi’ 28 maggio 2010)

Pixies

Japandroids

Wilco

Spoon

The New Pornographers

Se quest’anno manca qualcosa è un cartellone coi controcazzi nella splendida cornice dell’Auditorium. I My Bloody Valentine ancora riecheggiano tra le poltroncine dell’unico spazio indoor del festival. Owen Pallett dei Final Fantasy – protagonista di un ottimo album solista, “Heartland”, tra i picchi qualitativi di questo 2010 – e la proiezione di Oddsac, film di Danny Perez e degli Animal Collective sarebbero gli eventi più attesi, ma piazzati come sono piazzati in orario post-colazione e in piena fase di ripresa fisica (leggasi le 16). Peccato. Ci sarebbero anche i Low a riportare per intero non il loro album migliore, ma comunque un album di buon livello quale “The Great Destroyer”. Ma sovrapposizioni varie impediscono di esserci. Anche perché uscire e rientrare dall’Auditorium che tecnicamente è fuori dai cancelli del parco equivale a perdersi due o tre performance nei cinque palchi interni. Che poi sarebbero sei, se si considera la new-entry dell’Adidas Originals con gruppi emergenti dalla provenienza vagamente latina. E magari sette (incluso il piccolo tendone del Salon de Myspace), o addirittura otto con il ben più succoso “Ray-Ban Unplugged” in cui in un tendone letteralmente preso d’assalto Emilio José, Ganglians, Sian Alice Group, Dum Dum Girls, Charlatans e The Antlers si susseguono tra venerdì e sabato.

Ai Wild Honey, ospiti locali del palco Pitchfork, l’apertura delle danze, con il loro poppettino motlo twee e senza pretese da buoni sentimenti a iosa. In linea con l’atmosfera e in contrasto con le nubi che si addensano sulla costa catalana, il palco principale è inaugurato da un’altra band canadese simbolo, i New Pornographers.

L’orchestrina degli otto nerd di Vancouver fa un figurone. E sarebbe stato difficile prevedere il contrario. Il quinto album della loro carriera, l’appena rilasciato “Together” non sconvolgerà la storia del pop, ma riconferma l’inossidabile vena melodica della superband. Neko Case è l’eroina sfigata del rock degli anni Zero. Da “Sing Me Spanish Techno” che sembra quasi un tributo passando per vecchi e nuovi inni medi e quotidiani da sorriso a trentadue denti. Essenziali, trascinanti, concreti. Semplicemente perfetti. “Use It”, “Sweet Talk, Sweet Talk”, le acclamatissime “The Slow Descent” e “Mass Romantic”. Manca solo il sole, un cielo fiabesco, caramelle che piovono dal cielo e palloncini in platea. Il sottofondo loro ce lo mettono comunque Quando e se mai nel nostro paese avremo una band del genere, vorrà dire che l’Italia sarà veramente tornata a essere un paese culturalmente sensato.

In tema di estate e di ottimismo, Pitchfork lancia alla ribalta i Best Coast. Un nome che già sarebbe una garanzia per il duo di Los Angeles esploso su internet con l’irresistibile “When I’m With You”. In attesa di quello che si preannuncia il disco estivo del 2010. L’affascinante Beth Cosentino e il reduce metallaro Bobb Bruno, accompagnati da Ali delle Vivian Girls alla batteria, offrono un soddisfacente compendio delle loro ammalianti gemme pop intrise di distorsioni molto psychocandy e dallo svampito gusto surf. The Drums, quelli dell’altro inno neo-surf del 2010, la fischiettatissima “Let’s Go Surfin’”, rendono onore ai Best Coast ballando in platea. “Make You Mine”, “Sun Was High (So Was I)”, “Boyfriend” sono già delle ideali colonne sonore dei prossimi mesi. Una sognante rivisitazione di “So Bored” dei Wavves, che sullo stesso palco un anno fa avevano fatto una figura indegna per lo stato confusionale del frontman Nathan Williams, è un altro momento inedito quanto intenso. Saranno famosi anche loro.

Nel nome del nord-america, si ritorna sul palco principale per un’altra band la cui notorietà e il cui valore spesso sfugge in territorio italico. “Transference” ha ribadito la loro importanza, non a caso spingendoli fino al quarto posto nelle chart statunitensi. La scaletta ripercorre episodi recenti e meno recenti della carriera della band texana. Sì, in Texas non sono così indietro come si potrebbe pensare. La bandiera in onore dell’anniversario dell’indipendenza messicana, esposta sul synth, meriterebbe un excursus storico più lungo. Come venire dal profondo sud e suonare come la più rispettabile delle band rock newyorkesi. Stiamo parlando degli Spoon. Sarà che non sono dei bellocci con particolari attributi e/o segni particolari. Ma questo vale un po’ per la maggior parte delle recenti band americane a fronte dell’attenzione al look dei colleghi inglesi. E il Primavera lo dimostra. Resta il fatto che gli Spoon meriterebbero di più. Continuare a suonare rock con la strumentazione tipica del rock senza troppi supporti moderni e senza risultare bolliti o smaccatamente revival, è riuscito ormai solo a loro e pochissimi altri. In questo uggioso tramonto del secondo giorno di festival, il loro inimitabile quanto semplice sound si propaga sul San Miguel stage con un’essenzialità e un calore unico. Il graffiante timbro di Britt Daniels si adagia a meraviglia sugli arrangiamenti d’alta scuola del quartetto. Puro e semplice rock? Non solo. “Jonathan Fisk”, “Got Nuffin”, “You Got Yr. Cherry Bomb” sono canzoncine con un tiro su disco che dal vivo diventa dinamite. “Written In Reverse” è classe pura, “The Way We Get By” che li ha resi famosi per la serie OC è ovviamente più applaudita delle altre e non può né deve mancare. Nessuna sbavatura in un’ora e passa di scuola del rock. “Small Stakes”, dal loro classico “Kill The Moonlight” chiude il sipario nel migliore dei modi. Poco da aggiungere. Famosi loro, lo sarebbero già.

Sarà colpa degli Spoon, ma è difficile non prendere sonno nel soporifero teatrino delle CocoRosie. Forse l’incauta scelta di piazzarle nell’immenso “Ray-Ban” stage piuttosto che nell’Auditorium. Forse alle 21.30 si pretenderebbe un po’ di energia in più. Forse la stanchezza inizia a farsi sentire. Forse il volume è un po’ bassino. Fatto sta che le due, per usare un francesismo come forse piacerebbe a loro, fanno rotolare le palle per terra lungo le gradinate dell’arena. Dopo neanche un quarto d’ora di fiducia, si torna a vedere qualcosa di nuovo dopo i tributi agli anni Zero del pomeriggio.

Gli Here We Go Magic che guardate il caso vengono da Brooklyn sono tra i nomi di punta degli ultimi due anni di indie americano. Il loro pop psichedelico e caleidoscopico riporta a casa, sotto il tetto di chitarre e dilatazioni sixties e digitali, le ossessioni degli Animal Collective. Freakettoni del ventunesimo secoli, unitevi? Macché. I loop e le tendenze più digitali non mancano. Ciò che rende la band qualcosa di molto interessante sta nell’ottima vena compositiva. In due anni e due album, i cinque hanno scritto delle gran belle canzoni. “Collector”, “Fangela”, “Only Pieces” hanno un’inconsistenza spaziale kraut a confronto con un approccio lo-fi quasi da cantina nel tribalizzare sognanti trip anni Sessanta. Da seguire con attenzione, anche perché “Pigeons” in parte supera per intuizioni e impatto emotivo (si pensi agli Arcade Fire tramortiti da naftamine) l’esordio eponimo.

Saltare Beach House e Wire perché già visti un po’ pesa. Ma in fondo toccherebbe ai Wilco. E passa il broncio. Cazzo dire di più su Jeff Tweedy e soci? Quando, causa problema tecnico riescono a trasformare una “Wilco (the song)”, in un inno corale e tribale grazie alla gentile comprensione del pubblico. Esaltato forse all’idea di salvare la baracca. “Handshake Drugs”, “Jesus, etc” sono canzoni che, si dirà, avranno segnato un’epoca. Un gruppo di musicisti coi controcoglioni che rende arte qualcosa che altrimenti puzzerebbe di muffa e inutile nostalgia 60s-70s. Le chitarre calde e taglienti di “You Are My Face” e “Impossible Germany” sono da amarcord. E poi “Shot In The Arm”, “One Wing” con Tweedy, il cantastorie dell’Illinois viscerale e mai prevedibile.“I Am Trying To Break Your Heart” rende la serata da antologia. Ci si sente testimoni di qualcosa di epico. Un doppio show, come da tradizione negli scorsi anni del Primavera, con una loro apparizione nell’Auditorium, sarebbe stato troppo. Emotivamente.

Di tutt’altro tenore il devastante rito suburbano dei Japandroids. I due ragazzi di Vancouver regalano uno degli show più intensi della tre-giorni. Un solo disco all’attivo, l’ottimo “Post-Nothing”, e un assalto sonoro da fieri nipotini degli Husker Du. La tempesta di “The Boys Are Leaving Town”, i nevrotici alti e bassi emotivi di uno dei brani più belli degli ultimi tempi “Young Hearts Spark Fire”. E poi l’anima post-punk che esplode in “Wet Hair” e i riverberi di “Sovereignty” “Rockers East Vancouver” è il loro orgoglioso omaggio alla città dal tenore di vita più alto del globo. Dalla loro rabbia a tratti giovanilistica non si direbbe. La chitarra di Brian King urla e sputa sudore e veleno. L’incredibile batteria del socio David Prowse sopperisce al basso con un furore invidiabile. Implacabili.

Andando storicamente a ritroso dal palco ATP, quei vecchi cazzoni dei Les Savy Fav, eredi fugaziani dei Pere Ubu e nome di punta dell’underground newyorkese degli anni ’90. Chitarre imponenti e avvolgenti, sempre e comunque agganciati al post-punk. “Storm”, “Patty Lee”, “The Equestrian” incendiano Barcellona. Ritmiche incalzanti come spesso se ne sentono, con esiti live spesso inqualificabili, nelle decine di indie-band che ne seguono la scia. Se “The Sweat Descends” fosse stata scritta in questi anni, sarebbe senz’altro un inno dei dancefloor alternativi. Si chieda ai Bloc Party o agli LCD Soundsystem che hanno accolto tra le loro braccia il batterista della band Pat Mahoney. E invece no. A un calvo e corpulento – per usare un eufemismo – Tim Harrington fregherebbe poco e nulla. Le sue improbabili danze del ventre sono il momento trash topico dei tre giorni.

Panda Bear offre una pausa di riflessione. Noah Lennox, membro fondatore degli Animal Collective, torna sul palco per presentare le nuove composizioni del quarto lavoro solista. Cogliendo l’occasione per riproporre il meglio del suo percorso di scomposizione e ricombinazione elettronica di sonorità da Beach Boys e derivati. A tratti gli estratti da “Person Pitch” si dimostrano una delle rare e originali deviazioni kraut della musica contemporanea. Stridori, rumorismo latente, riverberi che guidano l’evanescente andamento dei sampler e dei sintetizzatori di Lennox. Le cantilene della sua voce annichiliscono la platea del Vice preparando nel migliore dei modi anima e corpo alla seconda notte di Primavera.

Evitando di commentare troppo per rispetto del nome il fiacco live di Marc Almond, unto e patinato, quanto la resa del suo live che riesce a convincere una platea comunque in visibilio e nostalgicamente Eighties, con l’inevitabile riproposizione di “Tainted Love”. Esibizione fuoriluogo. Senza cedere troppo allo snobismo recentista, fanno molto meglio i Cold Cave. I quali a tratti suonano anche più anni ’80 del leggendario Soft Cell, ma hanno una marcia in più forse dovuta alla freschezza e all’età anagrafica che risolleva le sorti della nottata. “Love Comes Close” è un altro hit del 2009. Synth d’annata. Cassa dritta. “Youth & Lust”, l’omonima, “The Laurels Of Erotomania”. L’impatto live e i volumi sono la marcia in più. Sempre al confine col feedback, con quella propensione sperimentale e rumorista che spesso distingue una nuova band britannica da una nuova band statunitense. Basta poco.

Ci sarebbero gli Shellac, ma serve qualche minuto di break in questa giornata interminabile e dalle sonorità così variabili e contrastanti.

Anche perché tocca agli ovvi protagonisti della giornata chiudere il programma del palco principale. Si saranno pure riuniti ormai sei anni fa e per motivi cinicamente economici, come ammesso da Frank Black a proposito della reunion, ma i Pixies sono pure sempre i Pixies. E la commozione è sempre tanta. Non solo nel vederli così imbruttiti e “maturi”. La quasi cinquantenne Kim Deal avrebbe l’aria della zietta della quale sei costretto a sorbirti succhi e dolcetti improponibili di contorno a noiosi discorsi pomeridiani. Lui un camionista che prova a tirarsi a lucido per un’occasione serale di una certa importanza. Ma conta un cazzo. Non è retorica, ma sembrano davvero due ragazzini. Per sprint e compattezza del suono. 27 brani in un’ora e mezzo. Una serie di proiettili che tagliano l’aria mietendo continue vittime. Il pogo è da concerto punk. Le, per così dire, ballad commuovono e incantano con le intense voci dei due ex-ragazzi di Boston che sembrano ferme alla fine degli anni ’80. Joey Santiago e David Lovering, anche loro bravi e brutti, meritano gli onori del caso. Il meglio del meglio della loro carriera per una serata d’altri tempi. Difficile chiedere di più. Si potrebbe semmai chiedere di meno, come i rockabilly tex-mex che riaccendono lo spirito latino degli indigeni. Ma perché fare gli schizzinosi in fondo? “Winterlong” di Neil Young e “Head On” dei Jesus & Mary Chain, ripagano con gli interessi. Il bis da dvd con “Gigantic” e “Where Is My Mind?” è la cosa più giusta. Vale quanto per i Pavement. Se non fossero esistiti i Pixies, probabilmente ascolteremmo anche noi Marco Carta, Valerio Scanu, Alessandra Amoroso e altra merda mariadefilippica. O nella migliore delle ipotesi ci faremmo stupire dai consigli alternative di Carlo Pastore.

Per cui, doppiamente grazie ai Pixies. Non importa che parlando di quegli anni incredibili si citino sempre e comunque i Nirvana. Chi ne riconosce l’importanza, non potrà non tramandare ai posteri la marcia parola di Frank Black e Kim Deal, i padri pellegrini indie venuti dal Massachuset ts

Ci si è persi anche Major Lazer, i Bloody Beetroots in formazione live fomentano i tamarri spagnoli convincendo meno dei loro set da assalto sonico in salsa electro-house con cui si sono fatti conoscere in Italia e all’estero. Travolti da un insolito destino? Probabilmente sì. Questi giochetti un po’ anni novanta fatti di pause e reprise in cassa dritta e urlanti colgono poco nel segno. Un peccato. il claustrofobico dubstep di Joker diventa dunque il giusto commiato alla seconda giornata. Alla fine dell’ipnosi, per i più resistenti e per chi ha rimediato qualche input psicotropo/ormonale adeguato, resta Diplo per spremere le forze residue in un dancefloor allucinato e incessante che accompagna il palco Pitchfork fino alle luci dell’alba.

PIXIES

  1. Cecilia Ann
  2. Rock Music
  3. Wave of Mutilation
  4. Bone Machine
  5. Monkey Gone to Heaven
  6. Gouge Away
  7. Tame
  8. Hey
  9. Velouria
  10. Dig for Fire
  11. Allison
  12. Debaser
  13. Planet Of Sound
  14. Alec Eiffel
  15. Caribou
  16. Winterlong
  17. River Euphrates
  18. Head On
  19. U-Mass
  20. Isla de Encanta
  21. Broken Face
  22. Nimrod’s Son
  23. Here Comes Your Man
  24. The Holiday Song
  25. Vamos

———

  1. Gigantic
  2. Where Is My Mind?

THE NEW PORNOGRAPHERS

  1. Sing Me Spanish Techno
  2. Up in the Dark
  3. Use It
  4. The Laws Have Changed
  5. Crash Years
  6. All the Old Showstoppers
  7. Sweet Talk, Sweet Talk
  8. Challengers
  9. Testament to Youth in Verse
  10. Your Hands (Together)
  11. My Rights Versus Yours
  12. A Bite Out of My Bed
  13. The Slow Descent Into Alcoholism
  14. Moves
  15. Mass Romantic
  16. The Bleeding Heart Show

SPOON

  1. The Beast and Dragon, Adored
  2. Nobody Gets Me But You
  3. The Way We Get By
  4. Got Nuffin
  5. Don’t You Evah
  6. The Ghost of You Lingers
  7. Written in Reverse
  8. Don’t Make Me a Target
  9. Trouble Comes Running
  10. I Turn My Camera On
  11. Jonathon Fisk
  12. I Summon You
  13. The Underdog
  14. You Got Yr. Cherry Bomb
  15. Small Stakes

(di Piero Merola)

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