DIAMANDA GALAS, Vena Cava (Mute, 1993)

Prendete la voce fuori dal comune, che v’abbia impressionato più d’ogn’altra mai. Qualunque sia la vostra scelta, ora sostituite i polmoni con un compressore elettrico, le corde vocali con corde al titanio, annettete assurdi effetti speciali. Ora avete ottenuto qualcosa di probabilmente paragonabile alla voce di Diamanda Galás. Ascoltare “Vena Cava” per credere.

La compostitrice cantante poetessa artista performer greco-statunitense non si compiace più di tanto della sua rara dote, preferisce usarla come un arma: «Mi è stata data la mia voce per ispirare i miei amici e per torturare e distruggere i miei nemici». I suoi nemici sono il conformismo e il “benpensare”, verso le quali cose è divenuta linguaggio e stile di vita la provocazione nera e spietata. Non c’è da aspettarsi canzoni, begli arrangiamenti, ritmi o motivetti. La voce è la musica, appena supportata da qualche eco e spazializzazione, che con i testi fluisce fra sponde che si chiamano angoscia, denuncia, morte, demenza e dissanguamento. Voce che pesca nel gospel e nell’opera lirica, ma che sostanzialmente deforma, delira, itera autistica, balbetta, urla, urta e spacca. Mentre, dal vivo, il corpo si inonda di sangue (di bue), come la vecchia Carrie. Grande icona, Galás prende la sofferenza di corpi che marciscono e tremano, la converte in suoni/parole e te la sbatte in faccia. È una strega: ci dice quanto facciamo schifo a essere normali, e lo fa con rara violenza.

Il bordone sotteso a tutto è l’AIDS. Il malato, dannato in quanto peccatore dalla chiesa cattolica — questo almeno accadeva fra gli 80 e i 90 — Diamanda lo eleva a neo-Cristo, bacile di sofferenza. Divergenze sul tema con il vescovo di New York pare l’abbiano indotta un giorno a investirlo con una bella secchiata di sangue. Non so se sia verità o leggenda; ma tanto basta a immortalarne la giusta cattiveria.

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