BILLIE THE VISION & THE DANCERS, I Used to Wander These Streets (Tea-Kettle Records, 2009)

La Svezia salverà la nostra possibilità di continuare a sorridere? Ascoltando il quarto album dei Billie The Vision & The Dancers, creatura del geniale Lars Lindquists (da Malmoe), la risposta pare decisamente affermativa. I puntuali bollettini dell’amico Piero sembrano confermarlo, la Svezia è oggi la California europea della pop music e il migliore spot di cui essa possa godere è costituito esattamente dalle variopinte cartoline musicali che le band svedesi lasciano scivolare con grazia noncurante sotto l’uscio dei nostri cervelli sempre più oscurati dalla tenebra di un domani sinistramente incerto. Un mondo di piste ciclabili ed edilizia ecosostenibile a basso consumo, una bionda utopia di bellezza e leggerezza, di leggerezza che è bellezza e viceversa, il libero offrirsi di un’esistenza finalmente a misura d’uomo, un monumento alla sacralità del tempo libero. Tutte queste fantasticherie ingombrano la mente ascoltando le melodie di “I Use To Wonder These Streets” e la tentazione di cedere alle loro lusinghe è davvero sottile. Come già capitato con gli I’m From Barcellona (ma moltissimi sono gli esempi, dai Radio Dept. ai Club 8, passando per Irene e innumerevoli altri, vi basti dare un’occhiata a qualche puntata sparsa di IKEA-POP per farvi un’idea esaustiva) questi Billie The Vision & The Dancer sanno risvegliare il potere taumaturgico e guaritore di una sequenza semplice di accordi sposati ad una bella linea vocale, accarezzando le ferite del tempo che passa (ahimè! sempre più veloce…) con un alito tiepido e vivificante di iodio.

Gli arrangiamenti sono un elogio dell’eclettismo e anche la strumentazione impiegata è molto ricca, un tripudio di violini cinguettanti, tastiere e trombette che saltano fuori da ogni angolo libero con la gradevole impudenza di un ciuffetto d’erba fresca. L’umore che si solleva ha un che di estivo, a tratti quasi rivierasco, ogni disegnino melodico (come quelli appuntati tra le pagine del booklet) ha il suo raggio di sole personale che lo bacia in volto illuminandolo con il suo tocco benevolmente redentore e si avrebbe quasi voglia di vivere per sempre nascosti in qualche piega di canzoni come “I Miss You” o “Lily From The Middleway Street” (che al sottoscritto ricorda gli Housemartins, con tutta probabilità la migliore pop band degli ultimi vent’anni, prima o poi bisognerà dirlo). Composizioni come “Untitled Track Swedish Sin” o “Liar and a thief” si lasciano poi percorrere dallo sguardo come paesaggi che sfumano in una lontananza vaga e dolcemente sprofondata nella luce densa del tardo mattino. Ma anche il resto del programma non è da meno, tra filastrocche, schizzi folk appena accennati (ottima “Someday Somehow”) e tanta voglia di sdraiarsi un attimo per godere la meravigliosa ovvietà di un cielo limpido uguale a tutti gli altri. In definitiva un disco bello come una fidanzata ideale o il sogno della storia d’amore perfetta finalmente realizzato. A voi giudicare tutti i pro e i contro del caso.

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