ANDREW BIRD, Noble Beast (Fat Possum, 2009)

Esistono due distinte categorie di curatori qualificati a risanare la musica pop dalle sue eterne malattie: i primi sono i medici omeopati (provenienti perlopiù dal rock) che si divertono ad applicare una terapia d’urto, sbattendole in faccia una per una le sue contraddizioni. Della categoria eteropatica invece, fanno parte gli inguaribili ottimisti che il pop cercano proprio di salvarlo, costruendogli su misura un piccolo giardino dell’Eden, un modello ideale atto a correggere le storture. A quest’ultima razza appartiene Andrew Bird, erede legittimo di una stirpe di colti musicisti che ha fin qui compreso i calibri di Jim O’ Rourke, Brian Eno, Robert Wyatt, Matthew Herbert… bestie nobili, appunto. Compositori con alle spalle una formazione classica o jazz-avanguardistica, ma che quando si tratta di dedicarsi alla causa pop(olare) non ci pensano un solo secondo e si mettono sotto a comporre le canzonette. Senza farla facile affidandosi al solito ricettacolo di banalità “soleamore” che si vorrebbero connaturate al pop, tentano di comprendere quali ragioni e meccanismi muovano dietro una musica apparentemente semplice… e c’è qualcosa di commoventemente socialista in tutto ciò.

Un raffronto con “Useless Creatures”, il dischetto “pieno di note” che esce allegato a “Noble beast”, può restituire l’idea corretta sul lavoro di Bird e su quanto tutto sia stato votato alla sottrazione e alla semplificazione. In quel marmoreo blocco di divagazioni, arabeschi e contorti voli pindarici, il neosongwriter statunitense ha dovuto scolpire le linee di una figura distinta e cristallina. La complessità delle idee originarie però non è andata persa per strada: solo non sta più in superficie, ma lavora (eccome) sottopelle per perfezionare l’architettura delle canzoni, muove gli ingranaggi degli arrangiamenti solo per dare pieno risalto a voce, chitarra e cinguettii vari. Svolazzi di violino a parte, i primi piani sono tutti per le corde dell’acustica e per le melodie vocali, che nelle vette drammatiche di “Not a Robot…” e “Nomendclature” si avvicinano addirittura al pathos di Buckley padre o di Thom Yorke (un altro che, fra Radiohead e uscite soliste, nel calderone del pop ci fa sempre la figura del messia immacolato).

La dimensione artigianale è l’unica distanza snobistica che Bird si riserva di prendere rispetto alle grandi fabbriche della musica: come compositore avanguardista prestato alla “leggera”, ha bisogno di bottega e di attrezzi manuali per costruire la propria idea musicale di paradiso terrestre. Oppure, più semplicemente, non si fida del suono omologato e delle produzioni seriali. Per Andrew il pop è una cosa seria: è per questo che ci fischietta su.

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