WAVVES, Wavvves (Fat Possum, 2009)

Il Bardelli aveva ragione. Non viene in mente recensione più perspicua e criticamente attendibile di questa per il disco che ci apprestiamo a raccontare. I Wavves sono il perfetto prototipo di quella che in gergo si usa definire one-man band, dietro di essi ci cela infatti l’ombra vagamente inquietante di tale Nathan Williams, polistrumentista e squinternato compositore di San Diego, qui alla sua seconda prova discografica (la prima titolava “Wavves” con una “v” in meno, quanta fantasia…). E che musica fa questo Wavves? Diciamo per restare tranquilli un garage free form rumoroso e frastornante (oltre che frastornato, è chiaro), per lo più strumentale, ma talvolta più orientato verso un concetto abbastanza opinabile e ubriaco di canzone pop, quasi sempre risucchiato in gorghi psichedelici senza capo né coda. Dalla non-struttura delle sue invenzioni compositive si intuisce quale potrebbe essere il tenore dei suoi ascolti tardopomeridiani: Animal Collective, Butthole Surfers, Sonic Youth, Oneida, tonnellate di minimalismo, buona parte del catalogo Touch And Go, il tutto condito da una frequentazione più o meno assidua dei corrieri cosmici tedeschi di krautiana memoria, che va poi sommata ad una dimestichezza più che evidente con i manuali decostruzionisti giapponesi (anche le cose più truci e spinte).

Pitchfork ha già glorificato a dovere le imprese di questo dottor Frankstein ma la prima impressione d’ascolto non è poi così positiva, a ben vedere. Intendiamoci, alcune canzoni interessanti ci sono: “So Bored” ad esempio è un bellissimo affondo sonoro, avvolto in un bozzolo di feedback e coretti surf tanto goduriosi quanto equivoci. Lo stesso dicasi per altre bercianti canzoncine dallo svolgimento più o meno analogo, come “Get In The Sun” o “No Hope Kids”, imperniate su un’ipotesi affascinante di gioventù dal cervello liquefatto che si gode la giostra scassata del suo Paranoid Park senza lieto fine. Il problema è semmai il contorno, soprattutto le parentesi e gli interludi di matrice strumentale, in cui prende corpo un astrattismo totalmente informale che non è vivificato né dalla rabbia cieca dei più cacofonici scultori del rumore né dalla disperazione di chi è si è spinto fino al confine ultimo dell’articolazione musicale, sporgendosi sul nulla strapiombante del Suono assoluto. Quello che traspare è invece apatia e vuoto stordimento, la farneticazione gratuitamente autistica di una mente affogata nel delirio psicotico di sé stessa. Quello che si direbbe il rumore preciso dell’assenza di ogni pensiero.

Oddio, quanto detto potrebbe rappresentare per qualcuno un motivo di sincero interesse, e ci può anche stare, perchè Wavves in fondo si qualifica già come un esponente di spicco di questa nuova ondata noise-psichedelica americana fatta in casa (il termine tecnico è “shitgaze”) che tanti consensi sta raccogliendo un po’ dappertutto, negli ultimi tempi. Ciò non toglie che ascoltando il minuto e qualcosa di “Ghost Ramp 4” (ma l’album è pieno di tempi morti come questo) viene quasi voglia di non credere più nell’esistenza di nessuna musica, convincendosi quasi della necessità inaggirabile di passare al giardinaggio.

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