BRUCE SPRINGSTEEN, Working On A Dream (Columbia, 2009)

Non sapevo cosa scrivere. Cercate di mettervi nei miei panni. Sono springsteeniano e non rinnegherò mai il ruolo che ha avuto Springsteen nella mia formazione musicale. Cosa dovrei quindi dire davanti ad una roba del genere? Ho cercato di capire. Ho cercato di contestualizzare. Di guardare di sopra, di sotto, di lato. Forse mi manca solo l’ascolto dei brani al contrario per vedere se magari… ma so già che non succederebbe niente e a questo punto non ci resta che rassegnarci. “Working On A Dream” è il peggior disco di Bruce Springsteen. Va oltre “Magic”, oltre il binomio dell’orrore “Human Touch”-”Lucky Town” (che, va detto, rispetto a questa roba fa l’effetto di un “Born In The Usa”). Oltre ogni senso del pudore e ogni altro lavoro nostalgico di qualche vecchio rocker barbogio old-style. No. Mi spiace. Siamo dalle parte dell’inascoltabile. Dell’imbarazzante. È tutto da buttare. Tutto. Forse sono tragico, ma questa volta non salvo niente e mi sento anche tradito. Springsteen ha venduto 350 milioni di copie in tutto il mondo e non ha nessun bisogno di pubblicare dischi. Sta per fare la fine di Woody Allen. Quando uno diventa “mito” dovrebbe avere il buon gusto di parlare solo quando ha effettivamente qualcosa da dire.

Qui invece abbiamo solo la sarabanda dello stereotipo. Un sessantenne che non vuole rendersi conto di essere vecchio. Di avere figli in età da esordio discografico e di essere felice, appagato, borghese. Ok l’elezione di Obama, ma già siamo stati invasi da tonnellata di carta. Le tonnellate di musica buonista, rassicurante e paracula potevano risparmiarcele. E invece no. È il capitalismo, baby. C’è crisi e un artista come Springsteen vende sempre le sue dieci milioni di copie. Logica della tristezza. Illogica del già sentito. “Outlaw Pete” vuole essere un Woody Guthrie morriconiano e invece sono i Kiss in salsa western. “My Luck Day” è il solito rockone con cui aprirà i concerti e tutti diranno: “Dai che è sempre lui”. La title-track e sciapa da far paura mentre “Queen Of The Supermarket” si candida a brano più brutto del decennio. E in tutta questo caos da cuore infranto non si riesce a ricordare nemmeno quello che può esserci di buono. Che ne so, i momenti più sussurrati di “The Last Carnival” o il sapere che un nuovo album è comunque un’occasione per vederlo dal vivo un’altra volta (anche se forse dobbiamo renderci conto che oltre le emozioni anche la E-Street Band ha la sua età e forse Bruce potrebbe fare il folker a tempo pieno).

Insomma. Questo disco non serve a niente e a nessuno. Un disco che non dovrebbe esistere e che fa felice solo i detrattori che hanno finalmente un buon motivo per additarci come nostalgici e che sguazzeranno a piene mani nel più grande fiasco artistico di uno dei più grandi di sempre.

Nota a margine abbastanza indicativa. “The Wrestler”, la bonus track colonna sonora dell’ultimo omonimo film di Darren Aranofsky con Mickey Rourke in odor di Oscar, è bellissima. Infatti non fa parte del disco ed è stata scritta di getto, con sentimento e per una buona causa.

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