Fight the Power: i Public Enemy a Bologna

C’è una striscia dei Boondocks in cui Huey e Riley stanno guardando la TV sul divano. Sul teleschermo passa un video di Puff Daddy e i due ragazzi commentano che è il solito video di Puff Daddy: il pezzo fa schifo, le ballerine scuotono il culo davanti alla videocamera, P.Diddy si atteggia da par suo ed è insomma la riprova che l’hip hop ha venduto l’anima al satana dell’industria discografica, in cambio delle solite cose che si chiedono al diavolo. Chuck D si starà rivoltando nella tomba, commenta a questo punto uno dei due (credo Riley). Ma Chuck D non è morto, risponde l’altro. Cazzo, continuo a dimenticarmelo, fa allora il primo.

I Public Enemy, cristo! Chuck D, Flavor Flav, Professor Griff e Terminator X, questa la formazione ai tempi. Appunto, ai tempi. Diciamo la verità: l’ultimo album rilevante del gruppo, “Fear of a black planet”, è uscito nel 1990. Io all’epoca avevo appena finito, piuttosto brillantemente, la prima elementare e la musica non m’interessava ancora. In quanto al rap, lo associavo al massimo a “La mia moto” di Jovanotti e lo ritenevo quindi un genere per scemi. Diciotto anni sono passati, da quando io imparavo le tabelline e confidavo negli occhi sgranati di Totò Schillaci, mentre dall’altra parte dell’oceano i Public Enemy sfornavano il loro terzo LP.

Coi primi due i PE avevano fatto il botto, sia mediatico che di vendite. E non poteva essere altrimenti: un gruppo di negri veramente incazzati, che si rifacevano al movimento delle Pantere Nere e accusavano apertamente l’uomo bianco della situazione in cui versavano i loro fratelli, il tutto con allusioni più o meno velate alla lotta armata, non poteva non fare scalpore e colpire l’opinione pubblica. “Yo! Bum rush the show”, il disco d’esordio del 1987, l’ho recuperato una decina d’anni dopo in un negozio di cd usati, ascoltandolo con la devozione che meritava. Me lo sarei fatto piacere in ogni caso, perché nel frattempo mi ero documentato abbastanza sui Public Enemy per capirne l’importanza storica: e infatti mi piacque anche l’orrido “Muse sick-n-hour mess age” (1994), che comprai insieme al primo disco e di cui a distanza di anni salvo solo la copertina.

Il masterpiece di Chuck D e soci fu in ogni caso “It takes a nation of millions to hold us back” (1988), incluso da Rolling Stones nella top 50 dei dischi più belli di tutti i tempi: il disco conteneva alcune perle assolute come “Bring the noise” e la celeberrima “Don’t believe the hype” (youtube), un pezzo che col senno di poi suona come una profezia. L’anno successivo, Spike Lee chiamò i Public Enemy a collaborare alla colonna sonora di “Fa’ la cosa giusta”. Ne uscì fuori “Fight the power”, il pezzo manifesto dei PE, che venne poi incluso in “Fear of a black planet”. Leggendario l’attacco della terza strofa di Chuck D (la liberissima traduzione è mia): “Elvis era un eroe per molti / ma a me non ha mai detto un cazzo/ vedi, quello schifoso era un razzista punto e basta/ vaffanculo lui e John Wayne”. Diciamo che se Mookie aveva bisogno di una spinta, per prendere la sua decisione, i Public Enemy gliel’hanno data volentieri.

Public Enemy – Fight the Power

Il film uscì fra molte polemiche. Professor Griff contribuì ad amplificarle, rilasciando un’intervista dai contenuti antisemiti che gli valse la cacciata dal gruppo. Fu l’inizio della fine per i PE. “Muse sick-n-hour mess age” fu accolto a suon di pernacchie dalla critica. Spike Lee li volle di nuovo nel 1998 per “He got game”: i Public Enemy non se la cavarono male, firmando l’intera colonna sonora e guadagnandosi, grazie all’orecchiabilissima titletrack (youtube), un discreto air play radiofonico. Ma orecchiabile e bello non sono esattamente sinonimi, e l’idea che i PE avessero perso lo smalto e il mordente che avevano alla fine degli anni ’80 iniziò a serpeggiare persino tra i fan più accaniti. “There’s a poison goin’on” (1999) confermò gli oscuri presagi. Le cose peggiorarono in fretta: Terminator X decise di ritirarsi dalle scene, Flavor Flav partecipò ad alcuni reality show, e gli ultimi quattro dischi che hanno fatto dal 2002 a oggi non se li è cagati nessuno.

Martedì 2 dicembre i PE sono all’Estragon di Bologna. Chuck D ormai ha cinquant’anni e, come già detto, negli ultimi venti non è che abbia proprio spaccato. Le premesse non sono delle migliori.

Però.

Però il singolo “Black is back”, per quanto non sia un patito delle schitarrate nel rap, è più che accettabile. Però ci sarà Flavor Flav, che musicalmente sta ai PE come Repetto stava agli 883, ma dal punto di vista dell’immagine è incomparabilmente superiore, con le sue mille sveglie appese al collo e quell’aria a metà tra il cappellaio matto e Jazz di Willy il Principe di Bel Air. E poi ci sarà Chuck D, forse il primo rapper conscious della storia, con il suo flow leggermente datato ma sempre apprezzabile, tutto sommato, anche perché il vecchio Chuck sembra ancora incazzato, e di certo non verrà a raccontarci quanto è figo, quanti soldi guadagna e quante troie si scopa, ma ci parlerà di quanto il mondo è malato, di quanto i suoi fratelli stanno ancora male e di quanto l’hip hop si è rincretinito dai tempi in cui loro, quegli altri, avevano paura di un pianeta nero. Il titolo dell’ultimo album, “How you sell soul to a soulless people who sold their soul?”, da questo punto di vista lascia sperare. E poi c’è il logo dell’uomo nel mirino, c’è il profumo di leggenda old school, ci saranno “Fight the power”, “Public Enemy No.1” e “Don’t believe the hype” dal vivo. Chuck D non si sta rivoltando nella tomba, è ancora qui fra noi. Martedì mi sa che vado a sentire cosa ha ancora da dirci.

Public Enemy – Black is Back

(Fabio Varini)