WIRE, Object 47, (Pink Flag / Goodfellas, 2008)

Magari non hanno più il piglio avanguardistico e perfezionistico e affilato, sornione, smaliziato, degli esordi, i Wire, gli intellettuali del punk, i loro pezzi, pallottole per culo, cuore e cervello. Ma quel che solo conta è che i Wire, pietre miliari viventi della formidabile stagione post-punk, sono decisamente tornati a vivere e lottare in mezzo a noi. E la classe non è acqua, signori. I Nostri erano avant, anzi avanti va’, già trent’anni fa. E lo sono ancora oggi. Pur mettendo (deliberatamente) da parte un po’ di quell’indole sperimentale, di quegli incendi cerebrali che facevano di ogni loro canzone un Gran Varietà dell’imprevedibilità. E allora largo a riff semplici, ma profondi e pieni; a nove tenere canzoni mutanti.

I Wire, l’influentissimo trio inglese, ha da poco dato alle stampe un nuovo album, “Object 47” (dal numero copioso e complessivo dei lavori fin qui pubblicati), che sfoggia un suono decisamente più art-pop del consueto. Più melodico e solare e pacificato del consueto. Melodico e solare e pacificato quanto poteva esserlo “Amore del tropico”, l’album della infingarda “svolta californiana” dei grandi The Black Heart Procession, cui rimanda apertamente la quinta traccia di questa 47esima uscita discografica firmata Wire, “Four long years” (probabilmente la migliore della serie).
L’iniziale “One of us” è il più classico dei manifesti programmatici: atmosfera immediata, distesa, da “wave spiegata ai principianti” (o rispiegata ai nostalgici). Newman come al solito si alterna al microfono con Graham Lewis. I Nostri non lesinano momenti di circospetto funk sgembo, come nel caso delle quasi-ballabili “Mekon headman” e “Are you ready?”. L’andatura è da crociera, rispetto alle rasoiate di un tempo: una crociera in un mare lunare. La conclusiva “All fours” è una sorta di rock angolare e iperrealistico da sconfinate platee.

I Wire, una delle band più nevralgiche di tutti i tempi, li ho visti suonare dal vivo, quattro anni fa, ospiti di un Festival dove la stragrande maggioranza della platea, in età verdissima, era lì soltanto per gli Afterhours. Ai Wire spettò l’ingrato compito di esibirsi subito prima della nostra più blasonata rock band nazionale. Molti nemmeno sapevano chi fossero questi arzillissimi post-punkers. Molti li accolsero con malcelata freddezza. Ma dovettero ricredersi presto. Fu un concerto stupendo.

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