THE ZEN CIRCUS & BRIAN RITCHIE, Villa Inferno (Unhip Records, 2008)

Per il loro quinto album i pisani Zen Circus decidono saggiamente di fare le cose in grande, coinvolgendo un numero a dir poco considerevole di intelligenze musicali di altissimo profilo. Innanzitutto Brian Ritchie dei da sempre prediletti Violent Femmes, che in questo “Villa Inferno” oltre a produrre (con la collaborazione decisiva di Giorgio Canali, altro grosso calibro, nelle parti francesi e italiane), suona praticamente di tutto, dal basso al bouzuki. A questo va poi aggiunto l’intervento delle sorelle Deal (Pixies e Breeders, mica scherzi) nella felicissima (puro bubblegum punk) “Punk Lullaby” e la tutt’altro che trascurabile presenza (alle tastiere) di Jerry Harrison (di loro maestà Talking Heads, già amico e sodale di Brian Ritchie e compagnia) in una rivisitazione più che altro simbolica di “Wild Wild Life”, comunque apprezzabile nel suo impasto elettroacustico.

Ne esce fuori un disco godibilissimo che si barcamena tra concessioni ad un passato schiettamente punk di clashiana memoria ancora molto vivo (magari riletto da un prospettiva più “roots” come avviene in “He was Robert Zimmerman” o nella tuonante “Beat The Drum” che promette sfracelli dal vivo) e una amore sincero per un folk dall’anima genuinamente nazionalpopolare, come è possibile evincere soprattutto dall’ascolto dei tre pezzi in lingua italiana (nell’ordine: “Figlio di puttana” in bilico tra Rino Gaetano, Piero Ciampi e Nomadi, con il cantato quasi da straniero, un po’ alla Shapiro, la polemica e arringante “Vana Gloria”, nel solco di Modena City Ramblers e Tetes De Bois, e il bellissimo inno generazionale “Vent’anni”, molto Marta Sui Tubi).

Non mancano sortite in francese (“Les Tantes De La Diamche”, ai limiti del bluegrass) o addirittura in serbo (il brevissimo birignao waitsiano balcanico di “Narodna Pjesma”), per un opera attraversata da aromi popolareggianti e infarcita di storie, personaggi, osterie, visuali dal basso e strade, soprattutto strade, quasi si stesse ascoltando un polveroso on the road sul ciglio della musica, un interminabile autostop per le autostrade di una vita vagabonda che sta tutta dentro la custodia a tracolla di una chitarra. Da ascoltare.

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