SIGUR ROS, Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust (EMI, 2008)

Lalalalalalalalala…
Difficile superare lo shock di quei coretti svampiti che riecheggiano nella mente come nel brano tra quelle chitarre ubriache e latineggianti inseguite da un tamburo incessante e tribale. Quanto il videoclip freak-naturista da ritrovato rapporto con la natura, da definitivo superamento del pessimismo cosmico. Proprio loro, famosi per videoclip altamente sconsigliati per soggetti a rischio depressione.
Tutto apparentemente inspiegabile.
Sarà che per registrare i precedenti quattro lp che li hanno lanciati come una delle band più originali e meritevoli dell’arido panorama attuale non si erano mai spostati dal loro piccolo e ostile paradiso.
E che New York è, non solo musicalmente, tutt’altra cosa rispetto a Reykjavik. E che non si può uscire intatti dagli Abbey Road Studios londinesi. E che Cuba, pur sempre un’isola, trasmette delle ispirazioni poco affini con le dilatate atmosfere islandesi. Ma era difficile aspettarsi un trauma, per inciso tutt’altro che negativo, come “Goggledibook”. Primo singolo e brano d’apertura come a dimostrare la voglia di esprimere qualcosa di nuovo, piuttosto eloquentemente, forse troppo eloquentemente. Troppo perché, a conti fatti, nel resto dell’album non si avverte uno snaturamento così netto, pur accantonate chitarre elettriche e distorsioni. Proprio loro, famosi non solo per videoclip altamente sconsigliati per soggetti a rischio depressione, ma anche per quella chitarra suonata con l’archetto del violino.

Ma era un passaggio obbligato, dopo un “Takk…” che per loro si è rivelato quello che era stato “Hail To The Thief” per i Radiohead, un’ottima sintesi delle intuizioni dei precedenti album con meno spunti degni degli stessi. La produzione di Flood e i continui voli da e per la capitale islandese non hanno dunque trasformato, nonostante i presagi, i Sigur Rós, per questo “Með Suð Í Eyrum Við Spilum Endalaust”, impronunciabile formula che starebbe per “Con un ronzio nelle orecchie suoniamo all’infinito”.

Il ronzio ispira, almeno nell’ideale lato A, momenti schietti e a tratti sereni, facendoli addentrare in paesaggi pericolosamente solari in cui in passato non si erano mai voluti soffermare troppo, preferendo l’algida malinconia ideale sottofondo delle desolate distese islandesi.
“Inní Mér Syngur Vitleysingur” e “Við Spilum Endalaust” hanno un impatto pop e liberatorio che risente di una visceralità accomunabile agli Arcade Fire piuttosto che a vecchi tormentoni quali “Ny Batteri” o “Hoppipolla”. Se “Góðan Daginn” è il giusto momento di riflessione con quell’arpeggiato su cui il vellutato calore vocale di Jonsi si distende senza scossoni e variazioni al tema, “Festival” è la classica elegia alla loro maniera con un lungo e struggente prologo fatto di silenzi assordanti, violato da un giro di basso inaspettato che innesca una di quelle inebrianti ascese verso il cielo fatte di archi, vocalizzi ed esplosivi geyser orchestrali. Unico brano della raccolta a conservare un minutaggio degno di una band che in Islanda ha abbastanza tempo da passare in studio – come hanno sempre rivendicato orgogliosamente – insieme ad “Ára Bátur” che apre il lato B dopo una “Suð Í Eyrum” in cui ritorna la tribalità, in chiave metropolitana alla “Takk…”, nella ritmica secca e torbida che accompagna l’agrodolce pianoforte di Kjartan.

Influenzato non poco dalle limpide suggestioni semi-acustiche del progetto “Heim” (esempio lampante “Illgresi”, intenso canto bucolico nel suo arpeggio evidentemente folk) più che dalla tribalità del singolo apripista, l’ideale lato B è aperto dal brano che più degli altri ha le potenzialità del classico, non soltanto perché si affianca ai più riusciti leitmotiv del quartetto (piano narrativo, voce inquietante e finale epico-orchestrale) ma perché obiettivamente ha dalla sua una voce a dir poco emozionante e una melodia da brividi. La lunga “Ára Bátur” almeno fino all’esplosione darebbe l’idea di un brano di “( )” privato di quell’alone di fragilità e claustrofobia tipico della produzione oltre che dei toni di quell’irripetibile album. Toni in parte rievocati nelle due tracce conclusive, l’intermezzo di strumentale di due minuti di “Straumnes” e la sussurrata “All Alright” in cui per la prima volta il testo è addirittura in inglese.
Proprio loro, famosi non solo per videoclip altamente sconsigliati per soggetti a rischio depressione e per quella chitarra suonata con l’archetto del violino, ma anche per aver ideato un linguaggio alla portata di tutti, l’hopelandic fatto di parole allungate, mugolii, gemiti e versi.

Questi Sigur Rós da spiaggia, insomma, sembrano più orientati verso un pop dalle chiare venature folk oltre che orchestrali. Spontaneo e immediato, catartico più che sofferto rispetto al pop dell’altro capolavoro “Ágætis Byrjun”, si orienta su arrangiamenti meno ricercati e meno coraggiosi, incentrato sulla voce che più sugli strumenti nel costruire quell’empatia emotiva tra sonorità e ascoltatore. Per capire basti ascoltare “Fljótavík” in cui l’inserto orchestrale delle fedeli Amiina è un valore aggiunto e probabilmente il brano avrebbe funzionato anche senza.

Il non aver osato abbastanza, in definitiva, nel portare a termine questo rinnovamento rende questo quinto album un album di passaggio, una meteora fugace ed effimera che non aggiunge molto allo splendido cielo dei Sigur Rós.
Per il resto non c’è molto di cui preoccuparsi, perché il ronzio della spensierata leggerezza estiva non potrà durare all’infinito.

Consiglio per le letture estive a Jonsi, Kjartan, Georg e Orri:
“Samtal á milli náttúran og islenska”, Giacomo Leopardi (Operette Morali)

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