SUPER FURRY ANIMALS, Hey Venus! (Rough Trade, 2007)

Al pari di Stereophincs, Manic Street Preachers, Catatonia (che fine hanno fatto?) e Gorky’s Zygotic Mynci, i Super Furry Animals rappresentano una delle più importanti rock bands gallesi venute alla ribalta nel corso degli anni ’90 e una delle più felici intuizioni di sir Alan McGee. Undici anni esatti fa la mai troppo compianta Creation marchiava a fuoco il mai davvero dimenticato (almeno da queste parti) “Fuzzy Logic”, esordio (con tanto di volto di un noto spacciatore in copertina) di un allora sconosciuto quintetto di Cardiff in bilico tra estatiche nostalgie sixties (formato Teenage Fun Club) e granulosi viaggi psichedelici con biglietto di sola andata, che si era già fatto notare un anno prima dai più avveduti con l’ep (in gaelico) “Llanfairpwllgwy ngyllgogerychwyrndrobwllllantsiliogogoyocynygofod (In Space) (Welsh Concept Ep)” (e non sto scherzando, provate a pronunciarlo per intero nelle notti insonni per annoiarvi). Da allora è stata una pioggia ininterrotta di canzoni dedicate ai genitori di Albert Einstein e a Calimero, ritornelli con la bellezza di trentatrè fuck a ripetizione, tour con carri armati al seguito e (è bene ricordarlo) una serie di album spesso faraonici per una band che da sempre è dedita (cosa più unica che rara e per questo da difendere a spada tratta) all’esplorazione del lato più bambinesco, scherzoso e sghignazzante della psichedelia, raccogliendo il testimone di quel Syd Barrett (quello di “Bike”, “Arnold Lane”, “See Emily Play” e tutta la produzione solistica, per intenderci) di cui i Super Furry Animals rappresentano una delle filiazioni più autentiche e genuine dell’ultimo decennio, al pari dei Flaming Lips (un po’ i loro fratelli maggiori di sponda americana).

E per un anno che ha già regalato agli irriducibili del gruppo (numerosissimi in Inghilterra, tutt’altro che sparuti anche in Italia) il ritorno solista del leader Gruff Rhys con “Candylion” (sempre per Rough Trade, apprezzabile) non poteva esserci conclusione migliore che l’uscita di un nuovo album di inediti dei SFA. Parte “The Gateway song” e le lancette sembrano attorcigliarsi vorticosamente fino a tornare a dieci anni fa: nonostante gli anni di fittissima e febbrile attività che la band si porta ormai sulle spalle e la non più verde età, il suono è freschissimo e le armonie vocali (per le quali i SFA hanno pochi rivali al mondo) iniziano a srotolare nell’aria densa di good vibrations arcobaleni sonori superbamente arrangiati che inaugurano nel modo più opportuno e magniloquente un album da ascoltare e godere con le mani incrociate dietro la testa e il naso all’insù. Con “Run-Away” e “Show Your Hand” e i loro numeri pop d’altissima scuola si attenta subito alle salute instabile delle nostre coronarie: decisamente bowiano il primo, più beatlesiano il secondo, entrambi i pezzi sono tutto un germogliare di “Parapapapa” gongolanti e brillano di una vena compositiva felicissima che riesce ad impossessarsi del vostro piede destro (facendolo diventare parte integrante della canzone) con una velocità e una prepotenza a dir poco irritanti. “Neo Consumer” è pura pacchianeria poppedelica infarcita di vecchio ciarpame psichedelico ma piace anche e soprattutto per questo (come sempre con i SFA, del resto), “Into The Night” se ne sta appollaiata sul suo samba elettrico, accarezzata da un’idea di coro in stile Boston e qualche svisata Status Quo (e i dischi dei SFA sono belli anche per questo, come i film di Quentin Tarantino, pieni zeppi di citazioni musicofile e sibillini richiami a gruppi che l’ascoltatore altezzoso medio si vergognerebbe di avere- ma quasi sempre ha e in segreto apprezza- nella propria collezione, come Todd Rundgren, E.L.O., Supertramp, Knack, Bee Gees, un po’ i Lino Banfi del rock insomma).

In “Carbon Dating” si ribadisce l’ossessione per i Beach Boys (e il loro glorioso corrispettivo inglese, gli Zombies) e lo stesso si può dire a proposito di “Suckers”, forse il vertice qualitativo del lavoro, da gustarsi possibilmente mentre lo sguardo si smarrisce cercando di sbrogliare le linee assai aggrovigliate delle splendide illustrazioni con cui Keiichi Tanaami ha rivestito il nuovo disco: una mobilissima membrana visiva di pop art con tendenze fumettistiche, iconografia indù stilizzata (vagamente Bollywood), geroglifici egiziani e acide colorazioni da copertina di Lp inglese dei tardi Sessanta. La migliore locandina possibile per un disco che rappresenta con tutta probabilità il sottoscala più straboccante di chincaglierie pop inutili e quindi necessarie che vi possa capitare di scoprire nei vostri cervelli atrofizzati dai troppi ascolti nei mesi a venire. L’unico, per altro, con i crediti scritti rigorosamente prima in gaelico e poi tradotti in inglese, impagabile, davvero. Perché, statene certi, finché si avrà la certezza che un nuovo disco dei SFA prima o poi uscirà (e, manco a dirlo, un nuovo prodotto è già in cantiere) avrà ancora un senso alzarsi e andare a lavorare.

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