SUNSET RUBDOWN, Random Spirit Lover (Jagjaguwar, 2007)

Che il Canada sia una sorta di continente vergine (o terra promessa) per l’indie rock è un fatto ormai difficilmente contestabile, per altro testimoniato dalle dozzine di band (spesso ottime) e album che sono sbocciati come funghi da almeno un quinquennio a questa parte a Montreal e dintorni. Un intricatissimo e aggrovigliato sottobosco di disordinati progetti musicali, spesso promiscui, che germinano uno nell’altro e che sembrano quasi comporre un interminabile elogio del side project perpetuo, sfiorando in una band come i Broken Social Scene (sorta di organismo madre dalle geometrie variabili che ha disperso le sue fertili spore in buona parte della vegetazione indie canadese) esiti di stratificazione anche piuttosto estremi (tanto che adesso, più o meno a turno, ciascun membro della band coordinerà, alternandosi nel tempo, le attività della band/confraternita, partendo da Kevin Drew).

E questo terzo disco firmato dai Sunset Rubdown si inserisce appieno nel contesto canadese, rappresentandone una assai tipica espressione. Dietro di esso si cela Spencer Krug, che milita nei Wolf Parade e, più occasionalmente, nei Frog Eyes, due delle più interessanti e importanti bands della scena canadese di cui si parlava, insieme a Stars, New Pornographers, Dears, i già citati Broken Social Scene, e, ovviamente, gli Arcade Fire. In questo progetto Krug viene aiutato, fra gli altri, da Camilla Wynne Ingr che, detto per inciso, fa parte dei Pony Up. Come si può notare anche in questo caso il confine tra progetto principale e laterale tende ad assottigliarsi fino a scomparire del tutto, così come in fondo anche l’identità stilistica del prodotto musicale, estremamente caotica e debordante. Si potrebbe evocare tutto un filone americano di band stranoidi e geniali (già a partire dai nomi) come Superchunk, Ween, They Might Be Giants, Camper Van Beethoven, Wheat che hanno recuperato gli insegnamenti dei vari Zappa, Beefheart, Sparks, Residents, Tuxedo Moon e hanno creato un nutrito e dissennato bestiario di interessanti ibridi stilistici, mescendo il pop con l’avanguardia e destrutturazioni di ogni tipo, facendo della sperimentazione domestica e a basso costo una religione musicale e quasi il manifesto di una precisa filosofia di vita.

Il progetto dei Sunset Rubdown potrebbero essere inserito in questa “tradizione”, tanto è spericolata la varietà di spunti e intuizioni compositive che lo attraversano. Un lavoro dai tratti quasi enciclopedici, che spazia (anche nei confini di una stessa canzone) da un genere all’altro con apparente noncuranza, andando a comporre un arruffato e sgambettante arlecchino di invenzioni instabili e illuminazioni del tutto accidentali, secondo le improbabili direttive di un titanismo da cameretta. Con tutti i pro (spesso eccellenti) e i contro (forse più numerosi del dovuto) che un’operazione di questo tipo (come dire, molto “pitchforkiana”) può ragionevolmente avere. Dal vaudeville bowiano e sbilenco di “The mending of the cown”, con barocchi cori e controcori in semifalsetto squinternato degni di un’aria melodrammatica, si passa a “Magic Vs. Midas” che parte come un desolato ed etereo madrigaletto alla Yes e poi si perde in un caotico turbine di contorsioni low fi. La musica ha quasi sempre un tono piuttosto teatrale e vagamente farsesco, con la voce di Krug un poco spora le righe e spesso farneticante, ma non mancano momenti caratterizzati da un maggiore lirismo come nell’imprevedibile e tonitruante epilogo di “Up on your leopard…” (una delle migliori canzoni), che dopo essere esplosa in un aggrovigliato carnevale felliniano di nonsense e strampalati calembours musicali, si acquieta in una melodia struggente e corale. Per lo più il resto del programma è costruito da marcette e fanfare impolverate con cui questi Sunset Rubdow accompagnano le loro migrazioni nelle regioni più profonde del loro mobilissimo immaginario. Apprezzabili in questo senso le atmosfere spettrali e risuonanti di “Stallion”, morbida ballata inghiottita da gorghi circolari di note di pianoforte, in bilico tra Tom Waits e Erik Satie, con una meravigliosa progressione strumentale in crescendo nella parte conclusiva. Da segnalare anche gli intarsi orchestrali di “Winged/Wicked things”, dove un certo legame con i Talking Heads più invasati e pionieristici tende in qualche modo a precisarsi. Non può del resto mancare qualche concessione al folk delle origini (“Child-Heart losers”), unita ad episodi dove si palesa in maniera più evidente un’attitudine apertamente “progressiva” (l’accoppiata “Setting Vs Rising”, ”Trumpet, Trumpet, Toot, Toot !”).

Una maggiore compattezza interna e una più severa selezione delle idee avrebbe senza dubbio snellito questo pur notevole lavoro, rendendolo un po’ più digeribile e più immediatamente decifrabile. Del resto la sua bellezza risiede principalmente in questa inesauribile verve affabbulatoria, musicalmente assai logorroica, che lo caratterizza. Ecco, in questa laboriosa officina di invenzioni e portenti leonardeschi in bassa fedeltà, forse un po’ più di silenzio non avrebbe guastato.

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