HOT CLUB DE PARIS, Drop it ’til it pops (Moshi Moshi / V2, 2007)

Per chi fosse rimasto leggermente anestetizzato dagli strati di melassa sentimentale non sempre giustificata degli ultimi Bloc Party, un possibile valido antidoto potrebbe essere rappresentato dagli Hot Club De Paris che non sono francesi e non vengono da Parigi, bensì da Liverpool.

La prima cosa che colpisce di questo gruppo è l’assoluta qualità dei titoli delle loro canzoni (trovate ingegnose ed esilaranti come: “3:55: Penso che dovremmo tornare a casa”, oppure :”Ciao. Ho scritto una canzone per te chiamata:”Welcome to the jungle””, oppure ancora: “Chi sono io? (Qual è il mio nome?)”, fino al titolo della sesta traccia che non può essere trascritto per la sua eccessiva complessità ma che può venire tradotto con un “Superfragilistichespiralidoso”). A questo non trascurabile dettaglio va poi aggiunto un estro irrequieto e funkeggiante che li fa somigliare ad una versione spartana, genuinamente casereccia e verace di band come Bloc Party, Maximo Park, Rakes o Futureheads, oppure come !!!, Rapture e Supersystem, senza però l’intrusione invadente dell’elettronica. L’approccio è fondamentalmente fisico, corporale come ben dimostrano le scalcianti “Welcome Welcome to The Hot club de Paris (Can I get A rewind?)”, altro titolo da guinnes dei primati, e le successive “Clockwork Toy”,”3:55…”, “Tes/No/Goodbye”, “Names and Names and Names”,”Who Am I ?…” tutte accomunate da un punk logorroico eseguito con il pedale dell’acceleratore sempre premuto al massimo.

Il gruppo cita tra i propri riferimenti addirittura i colossi hardcore Minutemen e Black Flag (ma dice anche di descrivere ai tassisti la propria musica come una derivazione diretta degli Yes) e forse qualcosa rimane nella ipertrofia verbale e nel disegno molto naif della sesta impronunciabile traccia o di “Shipweck”, con qualche tentazione emocore che picchietta qua e là. Bisogna anche dire che le canzoni del disco sono tutte molto simili (se non quasi identiche) fra loro e spesso non superano gli angusti confini dell’invenzione estemporanea non portata a termine o di un tic nervoso che se ne va come è venuto, ma la simpatia e il brio non mancano certo tra queste note e le scanzonate voci a cappella di “Bonded by Blood (a song for two Brothers)” alla fine ripagano l’ascoltatore non troppo serioso e in vena di cazzeggi gratuiti.

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