SHANNON WRIGHT, Let In The Light (Quarterstick / Self, 2007)

La musica di Shannon Wright si è mossa negli anni con le stesse dinamiche di una tempesta: l’addensarsi di nubi sempre più nere in bassi cieli folk, i lampi soffocanti e poi, lentamente, il diradarsi dell’oscurità, lembi azzurri che occhieggiano piano. La chiave del cambiamento sta tutta nelle dita che sfiorano il pianoforte in “They’ll kill the actor in the end”, una delle canzoni più belle del nuovo “Let in the light”: quando Shannon sussurra parole come everthing must come to and end, lo fa cullandoti piano, sorridendo dolcemente; il dolore non è scomparso, ma qui è più intimo, sincero, mentre “Over the sun” lo rappresentava in maniera eccessiva, teatrale, monoliticamente elettrica.

Non grida più, Shannon, né si lascia cadere a terra esanime, sfinita e incapace di reagire; “Let in the light” tiene gli occhi bassi, sfiora un pianoforte e violenta una chitarra in maniera asciutta e geometrica e, stranamente, l’emozione arriva molto più forte in tutta questa pulizia formale che nei toni sopra le righe del disco precedente.

La collaborazione con Yann Tiersen, evidentemente, ha portato in dono un gusto per il bozzetto, per gli schizzi sonori minuscoli e dall’apparenza incompiuta: “Defy this love” e “Steadfast and true”, con quella mano destra a danzare con grazia sulla tastiera, parlano con le note di Satie e con la sincerità di chi accetta realmente, stavolta, di mettersi a nudo; l’elettrica scalpita nuovamente in “St. Pete”, gira nervosa attorno a una serie di accordi, è cruda e slabbrata, mentre “You baffle me” circuisce il melò dei Blonde Redhead aprendosi alla melodia degli archi.

Il cammino verso la luce è lento e doloroso, ma è una strada che, stavolta, Shannon Wright percorre con una grazia infinita, arrivando perfino a sorridere nel finale di “Everybody’s got their own part to play”: più che un titolo, una dichiarazione di intenti messa in musica.

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