SONIC YOUTH, The Destroyed Room: B-Sides And Rarities (Geffen, 2006)

Quale commiato più degno dello stile-Sonic Youth si poteva mai avere con la Geffen, l’etichetta che ha portato alla ribalta, ormai vent’anni orson, una delle rare band gloriosamente coerenti e anti-commerciali degli ultimi tempi? Niente greatest hits. Niente remix. Niente album dal vivo. Strumenti (ed espedienti) sempre ripudiati dallo storico collettivo newyorkese. Si sceglie quindi l’ostica via di riunire sotto un unico tetto b-sides, bonus track, rarità, tracce precedentemente incluse in raccolte esterne al gruppo. Un disco per i seguaci più integralisti, insomma, non certamente un punto di partenza attendibile per chi ha, colpevolmente o distrattamente, trascurato le produzioni di una delle band più influenti e significative dell’ultimo ventennio.

Raccolta che copre il periodo che va dal 1994 al 2003, gli anni della graduale deviazione verso suoni più accessibili e limati, dal primo vero incidente di percorso, “Experimental Jet Set, Trash & No Star”, che seguiva un’incredibile sequenza di dischi tra il fondamentale e il sublime, al penultimo lavoro in studio, il controverso “Sonic nurse”. E verrebbe da riflettere su quanto ci avrebbe guadagnato in qualità quest’album con le tre bonus track giapponesi strumentali incluse in questo “The destroyed room (B-Sides & Rarities)”. La dilatata “Fire engine dream”, perversa quanto un brano di “Confusion is sex” depurato con equalizzazioni più care alle sonorità degli ultimi Sonic Youth o la più “melodica” “Kim’s chords”, più che alle strizzatine d’occhio pop-rock 70’s dell’ultimo “Rather ripped” si pensi alla propensione “melodica” dell’ottimo “Murray street” che ondeggia, vellutata quanto spigolosa, con le chitarre dei maestri Thurston Moore e Lee Ranaldo che si aggrovigliano leggiadre e contorte fino a una sferzata ritmica simil-wave che lascia un po’ straniti. Fatta da chi, come dimostrano le fugaci dissonanze dell’altro out-take dell’album sopra citato, “Beautiful plateau”, ha aperto la strada a quel filone di reazione alla new wave, la cosiddetta no-wave, che darà vita al noise, allo shoegaze della seconda metà degli anni 80 contribuendo in maniera consistente, se non decisiva, all’ondata indie e grunge di qualche anno dopo.

Sorprendono poco le fasi inconfondibilmente soniche, dall’acida “Fauxhemians”, sospinta dal tuonante basso della Gordon incalzata saggiamente dalla secca batteria di Steve Shelley, alle avanguardistiche “Queen Anne chair” e “Three part sectional love”, esercizi di stile quanto ulteriori prove dell’incredibile classe del quintetto. E’ bene sottolineare quintetto, perché nella maggior parte di questi brani figurava ancora il quinto Sonic Youth, il poliedrico Jim O’Rourke, attualmente fuori dal gruppo, impegnato in side-project.
Sorprendono, e non poco, invece il perverso folk tra Led Zeppelin e Velvet Underground, biascicato da una Gordon che fa la Nico, del minuto e poco di più di “Razor blade” (b-side del classico “Bull in the heather”), l’electro-glitch, con tanto di loop e blips, di “Campfire” (estratto di una compilation del 2000) e l’ambizioso ambient di una “Loop cat” (da un’altra compilation, “You can never go fast enough”) in cui si avverte più che mai la mano di O’Rourke.

Chiude infine nel migliore dei modi uno dei classici più suggestivi di oltre venticinque anni di carriera, la meravigliosa “The diamond sea”, nella versione con tanto di finale esteso (dura quasi sei minuti in più dei diciannove della versione di “Washing machine”) tra accelerazioni, rallentamenti, feedback, alienanti intermezzi cupi e claustrofobici, rigogliose reprise. E soprattutto atmosfere e melodie da lasciar senza fiato. Quasi a ribadire, idealmente, una volta per tutte, che credere che i Sonic Youth siano stati solo rumore sia una delle bestemmie più imperdonabili della recente storia del rock.

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