YO LA TENGO, I Am Not Afraid Of You And I Will Beat Your Ass (Matador / Self, 2006)

Sta piovendo a New York. Si nota benissimo. Uno spesso strato di nuvole minaccia la città e la zona circostante. Un cazzo di temporale estivo, bella fortuna. Prendo il mio bagaglio ed esco dall’aeroporto di Newark dove vedo subito una persona che regge un cartello col mio nome. Mi presento. Lui è il mio autista. Il mio uomo-ombra per il weekend. Saliamo sull’auto – un comodissimo fuoristrada della Dodge – e ci allontaniamo prima che il traffico della mattina ci impedisca ogni movimento. Sono le 07.34 e la skyline di New York si sta avvicinando sempre di più. La pioggia è fastidiosa e rende ancora più desolante il panorama del New Jersey. Ormai ci stiamo addentrando e mi vengono in mente un paio di canzoni di Bruce Springsteen: “Factory” e “Streets of Fire”. Aveva ragione. E se queste cose le penso io che abito a diecimila chilometri da questo posto, figuriamoci chi ci passa la vita. Hoboken, però, non è così triste come ci si potrebbe immaginare all’ascolto di “Night Falls on Hoboken”. Sono passati sei anni da quel disco ma le cose, per gli Yo La Tengo, non sembrano essere cambiate.

La macchina si ferma in prossimità di una villetta familiare come mille altre. Il classico quartiere residenziale alla American Beauty. Il viale è disseminato da Dodge identiche alla mia. Mi avvicino alla porta e ad aprirmi è Georga Hubley. Sorriso gentile, mi stringe la mano e mi chiede se voglio bere qualcosa. Quest’anno la Matador ha deciso di fare le cose in grande: hanno organizzato una sessione d’ascolto di “I Am Not Afraid Of You And I’ll Beat Your Ass” direttamente a casa Kaplan, nel New Jersey. Vitto e alloggio tutto pagato per un weekend. La prima volta che sono felice di fare il giornalista musicale. Ovviamente non sono solo. C’è il gotha del giornalismo musicale mondiale. Ci sono Keith Cameron e Sylvie Simmons di Mojo, c’è Cameron Crowe, inviato di lusso per Rolling Stone, c’è Mac Randall e – addirittura – Greil Marcus, che sorseggia scotch (alle 9 del mattino!) e si aggira per il salotto con l’aria di chi la sa lunga. Siamo tutti adagiati su divani e poltrone, io sembro uno capitato lì per caso e il salotto degli Yo La Tengo è un normalissimo salotto di provincia. C’è uno stereo, un po’ di dischi e un paio di foto di Kaplan in posizioni assurde con la chitarra. Sono gli unici frammenti che mi fanno pensare al mestiere dei proprietari. Tiene banco uno della casa discografica. Dice un sacco di cose di poca importanza, l’unica cosa che mi interessa è ascoltare questo disco, uno dei più attesi di quest’anno.

Dopo una buona mezz’oretta (e una bottiglia d’acqua intera) arriva Ira Kaplan. Veste una camicia bianca di qualche misura più grande, dei pantaloni marroni scuri e delle scarpe da ginnastica. E’ raggiante e scambia battute con tutti. Arriva anche McNew, in felpa da ginnastica e jeans lisi. Maledice la pioggia pulendosi gli occhiali. Ormai ci siamo tutti ed è ora di andare a sentire il disco. Andiamo in garage dove, con mio moderato stupore, gli Yo La Tengo nascondono diverse apparecchiature che farebbero l’invidia di uno studio di registrazione professionale. C’è un mixer a 24 canali. Due diffusori enormi e un sacco di altra chincaglieria che ho visto milioni di volte nei documentari musicali.

Gli Yo La Tengo si siedono sulle loro poltrone mentre noi stiamo in piedi a farci osservare. Greil Marcus ha acceso un sigaro mentre Keith Cameron sta sbadigliando con insistenza per colpa del jet-lag. Dico a Cameron Crowe che avevo già sentito delle canzoni nuove in concerto a Barcellona. Lui mi dice che in effetti sono dieci anni che non vede gli Yo La Tengo dal vivo e la cosa finisce lì. Kaplan dice un paio di frasi di rito e clicca su un pulsante. Parte una linea di basso aggressiva, una batteria lineare e una chitarra distorta, sibilante, eredità diretta di “Electr-o-Pura”. E’ “Pass the Hatchet”, la prima canzone. Un mantra di nove minuti tutto istinto che tradisce la natura eclettica di quest’album. Qualcuno, tipo Sylvie Simmons, già spera nel ritorno all’elettricità, ma ecco che arriva il poker pop-malinconico di “Beanbag Chair”, “I Feel Like Going Home”, “Mr. Tough” e “Black Flowers” e siamo in territori rarefatti dove è il pianoforte a farla da padrone. Tutto l’opposto di “The Race is on Again”, vagamente psichedelica ed erede diretta di “Little Eyes”. Dopo sei canzoni il bilancio è più che positivo. Un disco asciutto, scritto e suonato con passione da una band che ormai non deve dimostrare più niente a nessuno ma continua a cercare nuove vie d’espressione, magari tornando anche al passato recente con la maturità di oggi. E’ il caso di “The Room Got Heavy”, che poteva tranquillamente essere la canzone migliore di “Summer Sun”. Georgia ci spiega i dettagli delle linee di batteria, come sono nate determinate idee e come le hanno realizzate. E’ strano notare come siano loro ad imporre il discorso senza rispondere ad alcuna domanda. McNew presenta “Sometimes I Don’t Get You” come il suo pezzo alla Scott Walker, ma non c’entra poi tanto, infatti – finito il pezzo – si lancia in una fragorosa risata condita con un just kidding. Il nono brano è una lunga discesa psichedelica nei territori più introspettivi già assaporati in “And Nothing Turns Itself Inside-Out”, mentre “I Should I’ve Known Better” ricatapulta a quella versione noise dei R.E.M. che la band ha spesso incarnato con la solita auto-ironia. Auto-ironia che esplode in “Watch Out For Me Ronnie”, che potrebbe quasi essere un pezzo dei White Stripes sotto morfina. Lo faccio notare e tutti i colleghi mi guardano male. McNew pare divertito. “I White Stripes sono bravi ragazzi” mi dice “Forse è un omaggio indiretto, ma in effetti è un tipo di cosa che non abbiamo mai fatto”. “The Weakest Part” torna nei territori pop dell’inizio, come “Song for Mahila”, che tradisce una ritmica vagamente bossanova su scenari elettrici che rimandano ad un tramonto in riva al mare. “Certamente non è l’Hudson River” dice Kaplan, “quello puzza. Qui invece mi piacerebbe si sentisse più come un profumo, tipo” e ride. Sono persone allegre. Diversissime dai loro alter-ego artistici che riflettono attraverso la musica e le parole, si fanno domande ed esprimono la loro malinconia con le lunghe cavalcate strumentali come “The Story of Yo La Tengo”, 12 minuti che concludono un album che esprime la piena maturità di una band che ormai è l’unica e vera bandiera dell’indie-rock.

Segue un applauso di rito. I giornalisti di Mojo parlano tra loro, io bevo una Coca mentre Cameron Crowe chiede, distrattamente, informazioni sulla musica indipendente italiana. Mac Randall sta parlando con McNew mentre Greil Marcus si becca gli elogi della Matador tutta per motivi che sfuggono a tutti noi.

Ci spostiamo poi in massa in una brasserie di Hoboken per un pranzo con A&R, discografici e band. Gli Yo La Tengo tengono banco dicendo che questo disco vuole essere un po’ il loro “White Album”. Greil Marcus storce il naso e il capo della Matador subito si preoccupa. Mai contrariare un pezzo da ’90 per cui la musica è morta nel 1972. Presto partiranno per un tour e verranno anche in Italia, per un unica data. Come mai solo una? chiedo io. Mi dicono che hanno già suonato due volte quest’anno e che volevano privilegiare altri posti, anche se amano l’Italia e il loro cibo, ovviamente. Mi dicono anche che un mio collega di Roma – che doveva essere qui ma ha annullato all’ultimo – doveva portarli in una trattoria del Lazio ma poi non ci sono riusciti. Un buon motivo per tornare in tempi brevi, osservo io. Loro ridono e dicono che ho ragione.

Sono ormai le 16 ed il tempo dei saluti è arrivato. Ognuno sale sul suo Dodge personale e va verso il suo destino. Cameron Crowe mi chiede di restare in contatto, Greil Marcus fuma l’ennesimo sigaro, Mac Randall è al telefono e i giornalisti di Mojo si chiedono a che punto sia la chiusura del numero nuovo, con Syd Barrett in copertina. Un bello scherzo, quello di Syd, fa notare Mac Randall. Molti annuiscono. Ci sarai a Milano? Mi chiede la band ed io dico che non posso certo mancare, a Barcellona han fatto uno dei più bei concerti della mia vita. Sorridono. Saluto garbatamente e me ne vado. Entro in Manhattan. I grattacieli mi tolgono il fiato. Alzo lo sguardo al cielo e vedo il tappeto di nuvole che si sta aprendo. Ha smesso di piovere. Il traffico è imponente e i marciapiedi sono pieni di gente che cammina in preda alla furia lavorativa che ho sempre solo potuto immaginare al cinema. Arriviamo al mio hotel, sbrighiamo le faccende burocratiche, saluto l’autista – con cui avrò appuntamento domenica sera per tornare in Italia – e me ne vado in camera. Il facchino mi chiede cosa faccio e alla mia risposta risponde con un sorriso compiaciuto e mi dice che questa sera suonano i White Rose Movement a due passi dall’albergo.

Magari un’altra volta.

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