CHEAP TRICK, Rockford (CTU, 2006)

La notizia di un nuovo album dei Cheap Trick non frega a nessuno, ora come ora. Ma c’è stato un periodo, negli anni settanta, in cui David Zander e soci erano sulla bocca di tutti come una delle migliori hard rock band in circolazione. Tutto giusto, tranne per il genere. Ok i riffazzi tra Who e New York Dolls, ma qui di hard non c’è assolutamente nulla. I Cheap Trick infatti, sono stati il primo – se non l’unico… dipende da come consideriate i R.E.M. – gruppo power-pop a guadagnarsi la fama a livello planetario.

Un gruppo che ora possiamo considerare di culto e di cui possiamo sentire l’influenza dei solchi di gente come Teenage Fanclub, Nada Surf e, sopratutto, Posies. Merito delle loro melodie zuccherine che vivono rigogliose sotto la pesante coltre di distorsioni e assoli al limite del tamarro (qui magari un po’ di hard rock c’è, ve lo concedo). Il loro punto più alto è arrivato con il disco live “At Budokan” del 1979. Poi nient’altro. O meglio, sono anni che Zander e compagni vivacchiano tra un concerto e l’altro al sole della gloria riflessa dei tempi che furono e della demenza senile dei fan della prima ora che ancora continuano a comprare i dischi (per lo più delle schifezze imbarazzanti che annullano tutto quello che di buono è stato fatto in passato). Almeno fino a “Rockford”. Sono passati trent’anni dal loro esordio e questo sembra addirittura il loro album migliore. I suoni sono perfetti, le melodie freschissime e le chitarre esplodono che è un piacere sulle cavalcate alla “Welcome To The Wolrd” o su ballate in puro stile Cheap Trick di “If It Takes A Lifetime”. C’è anche il tempo di un omaggio ai Beatles – “O Claire” – e una staffilata power-pop da brodo di giuggiole – “Give It Away” – ad impreziosire un disco che, purtroppo, lo dico a malincuore, rasenta la più completa inutilità.

Questo perché esce fuori tempo massimo di almeno venticinque anni. Ma non potevamo aspettarci niente di più. Ormai i Cheap Trick sono e sempre saranno un gruppo inutile. Lo ascolteremo in tre – più tutti quei professionisti incravattati che da qualche parte nascondono ancora, non senza vergogna, una t-shirt con la bionda chioma di Zander – e godremo delle piccole gioie della vita. Però, mamma mia, ‘sta roba qui non serve proprio a niente.

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