L’addio a Syd Barrett

Remember when you were young,
You shone like the sun.
Shine on you crazy diamond.

di Raffaele Meale 

Chissà se si ricordava, Syd Barrett, di quando era giovane, secco come un chiodo, con lo sguardo folle di chi forse non sa bene quello che sta facendo ma sicuramente sa perché lo sta facendo. Brillava come il sole, è vero, nonostante lui stesso nel passaggio centrale di “Jugband Blues” avesse scritto e cantato “I don’t care if the sun don’t shine/and I don’t care if nothing is mine”; brillava come il sole e ha illuminato, come pochi possono vantarsi di aver fatto, un’intera generazione di amanti della musica.

Quando i Pink Floyd divennero uno dei giganti del rock lui si era già prontamente defilato, cercando di tirar fuori dal cilindro quelle schegge che ancora riusciva a controllare: ne vennero fuori due album solisti instabili e geniali, frammentati, essenziali ed estremamente seducenti ricchi com’erano di quell’aura di episodicità che facevano respirare a pieni polmoni. Ma il vero pregio di “The Madcap Laughs” e di “Barrett”, oltre a quello prettamente artistico, era ed è che si tratta di due album coerenti. Da trent’anni a questa parte si fa un gran parlare della follia di Syd Barrett, del pazzo diamante costretto a brillare suo malgrado, della caduta nel maelstrom che l’allontanò dalle scene, lo si eleva a simbolo dell’epopea lisergica, icona dell’LSD, Icaro della psichedelia avvicinatosi troppo ai raggi del sole. Con il risultato che in pochi si occupano realmente del suo valore musicale. Lo stesso “The Piper at the Gates of Dawn”, capolavoro d’esordio dei Pink Floyd, viene spesso relegato in un angolo della memoria dalla critica e dal grande pubblico. Certo, il nome di Barrett torna in auge ogni volta che Waters o Gilmour suonano dal vivo e dedicano peana al commilitone che ha perso la guerra, ma l’impressione che il genio di questo ragazzo prematuramente scomparso dalle scene sia stato in fin dei conti valorizzato poco e nella maniera sbagliata è forte.

Le composizioni di Barrett hanno il fascino indiscreto dell’abnorme, del desueto: le sue liriche sono caratterizzate da un impianto narrativo che sembra prendere tanto dalla tradizione normanna quanto da fulminazioni shakespeariane, passando per rimembranze astronomiche, vaudeville, nenie infantili. Il suo tratto di penna in molti momenti sembra ipotizzare uno sposalizio tra il calembour verbale di Lewis Carroll e la semplicità quasi commovente di “Just So Stories” di Rudyard Kipling, e già solo questo lo pone come elemento alieno all’interno non solo del movimento psichedelico, ma della stessa grande famiglia del rock.

È un percorso laterale quello che ha affrontato, in uno sputo di anni, Syd Barrett, un percorso laterale e stupefacente che i fans duri e puri hanno protetto dalle ingiurie degli anni fino a oggi, e continueranno a farlo. Perché se è vero che la macchina industriale lo ha abbandonato al suo destino quando ha visto che era impossibile recuperarlo commercialmente (i concerti nei quali stava seduto a suonare la stessa nota per minuti interi devono essere stati altrettante coltellate inferte senza vergogna) non si deve dimenticare del solco profondo tracciato dalla sua musica. Una meteora che, atterrata in una zona desertica del mondo, l’ha resa fertile di autori, istanze musicali, epigoni. Alcuni nomi? Julian Cope, gli Swell Maps, l’Animal Collective, alcuni tratti schizoidi di Phil Elvrum, Kawabata Makoto degli Acid Mothers Temple, i Flaming Lips. Tanto per far capire il ruolo fondamentale di Barrett, un ragazzo che tra i venti e i ventiquattro anni ha saputo trovare una propria via personalissima nei canali, spesso fin troppo standardizzati, del rock: le assurde progressioni di accordi, la voce fatata e saettante, i cambi di ritmo spiazzanti, i giochi linguistici. Se per la musica era morto trenta e passa anni fa agli occhi di tutti i suoi adoratori era immortale, recluso nella casa di famiglia lontano dagli occhi, dalla stampa, dal ciarlare insulso che è proprio della società dello spettacolo.

Eppure, è notizia di pochi giorni fa, anche Roger Keith Barrett, noto come Syd, fondatore dei Pink Floyd e autore di una delle più belle parentesi del rock che si ricordino, ha detto addio a questo mondo. Che riposi in pace, come spero in pace abbia vissuto, tra i suoi Lucifer Sam, Grimble Gromble, spaventapasseri, topi di nome Gerald, elefanti dalle grandi orecchie, Emily e Maisie. Fa tristezza sentire i telegiornali e vedere che parlano di lui solo attraverso “Shine On You Crazy Diamond” e “Wish You Were Here”, ma non è che la cosa mi stupisca più di tanto.

Al momento, tra la commozione e l’incredulità, io cito solo le seguenti parole:

“Alone in the clouds all blue
Lying on an eiderdown.
Yippee! You can’t see me
But I can you”

E spero siano la verità…
Ciao Syd.