JOHN PARISH, Once Upon A Little Time (Mescal / Sony, 2005)

Le cronache rock si ricorderanno di John Parish per la sua principale e redditizia attività di produttore artistico per musicisti assai stimati come Polly Jean Harvey, Eels e Sparklehorse. Ultimamente però, il canuto inglese ha trovato una nuova giovinezza nelle verdi valli del Belpaese: negli ultimi due anni ha lavorato con Cesare Basile (sia “Gran Cavalera Elettrica” che l’ultimo “Hellequin Song” lo vedono in sala di regia), con Nada e gli Afterhours, oltre ad aver preso parte al progetto Songs With Other Strangers e aver composto una band composta per la metà da italiani (Marta Collica alle tastiere e Giorgia Poli al basso). A completare questo momento assolutamente soddisfacente, arriva anche un disco, “Once Upon a Little Time”, che segue di tre anni “How Animals Move”.

Quello cui si va incontro è esattamente il tipo di lavoro che si potrebbe ascoltare da uno come John Parish: cinematico e desertico, con la batteria spazzolata che sa di polvere e le slide che rimandano direttamente agli immaginari dei Giant Sand. Tra suggestioni strumentali e canzoni affascinanti e riuscite come “Sad Defences”, “Ever Radder Than That” (notevole country rock che non sfigurerebbe nei Calexico) e la ballata maudit di “Water Road”, John Parish esprime tutta la sua essenza con un lavoro assolutamente godibile. L’unico rammarico è che la performance vocale spesso non sia all’altezza della musica proposta (ascoltare “Somebody Else”). Intendiamoci, va benissimo. Ma spesso l’unica pennellata che riesce a dare alle sue corde vocali sfocia in qualcosa di molto simile alla monotonia. Ma è solo una pecca da niente.

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