FRANZ FERDINAND, You Could Have It So Much Better (Domino / Self, 2005)

Chiunque bazzichi il mondo del rock da più di un mese conosce il logoro rituale del “secondo album”: una band che grazie al lavoro d’esordio si merita l’appellativo di “rivelazione dell’anno” viene poi attesa al varco dagli stessi che l’avevano incensata, per scorgere il minimo segno di cedimento, il più flebile calo di ispirazione nella fatale seconda prova. Gli ultimi a ricadere nel cliché sono appunto gli scozzesini Franz Ferdinand, oggetto di una beatificazione a mezzo stampa per tutta l’annata ’04/’05 e ora già pronti a ributtarsi in pasto a critica e pubblico. Ce la faranno? Li aspetteranno nuovi altari o l’inevitabile tonfo nella polvere? Inutile tentare di creare la suspance, tanto il disco ormai l’avete già sentito tutti. E quindi?

La mia impressione è che in questo gioco delle parti i FF abbiano tutta l’intenzione di tenere il coltello dalla parte del manico, perché sono ragazzi svegli, furbi quanto basta, ma soprattutto coscienti dei propri mezzi. Si sono premurati di fare uscire l’album a caldo, per sfruttare l’onda del trionfale tour estivo e della stampa compiacente; per niente turbati dalle grosse aspettative, proseguono decisamente sulla direzione del primo lavoro, ampliandone leggermente lo spettro musicale.

Ormai tutti hanno sentito il singolo “Do You Want To”, un autentico tormentone i cui i Ferdinand sono talmente Ferdinand da sembrare, di proposito, la caricatura di se stessi: la ritmica martellante, gli ammiccamenti danzerecci sono portati sulla soglia del ridicolo, ma il tutto risulta terribilmente divertente. Ebbene sì, in tutto il disco si ha l’impressione che Alex Kapranos e soci “ci facciano”: tutt’altro che preoccupati di rimanere prigionieri di sé stessi, recitano fino in fondo la parte dei giovani dandy edonisti e amanti di gente e ambienti “artsy”, talmente ruffiani e frivoli che non è possibile non scorgere l’ironia del loro gioco. E se vi va di starci, al gioco, non c’è che da fare una cosa: ballare. Perché ogni brano potrebbe essere un singolo, un piccolo fuoco d’artificio da far scoppiare nell’Ipod per sentirvi anche voi un po’ più sexy e artsy. Basterebbe ascoltare il trittico iniziale, da “The Fallen” a “This Boy”, così come “Well That Was Easy” o ancora la title track: chitarre affilate che sparano riff taglienti su un basso, quello di Bob Hardy, diventato già proverbiale, impegnato in micidiali uno-due con la grancassa di Paul Thompson che potrebbero abbattere un peso massimo, mentre Alex gigioneggia con voce suadente, da diavoletto tentatore. Altrove il suono si ancor più duro e punkeggiante, aumentando l’adrenalina in circolo (“Evil And A Heathen”).

Rispetto al primo album spunta poi una vena acustica, romantica, seppur sempre macchiata dei viziosi ammiccamenti che sono ormai il marchio di fabbrica: è il caso di “Walk Away”, e ancor di più di “Fade Together” e della già famosa “Eleanor Put Those Boots Back On”, dove i ragazzi riescono a piazzare un colpo sfacciato nella sua beatlesianità, eppure delizioso nel suo incedere leggero e decadente al contempo.

In un certo senso, è come se i Ferdinand approcciassero il suono della new wave britannica con lo spirito di gente che fa lounge: la sofferenza autobiografica viene rimpiazzata da una messa in scena volutamente superficiale, dove il frivolo diviene programmatico, stile e sostanza. Liberissimi di pensare che sia un giochino fine a se stesso, che non si trovino qui emozioni vere: se da una band di ispirazione new wave esigete maggior rispetto del verbo che discende dai Joy Division potete rivolgervi ai Bloc Party, tanto per rimanere nella stessa parrocchia. “You Could…” però è un album solido, e ce ne sarà da ballare per almeno un altro anno.

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