DANIELE BRUSASCHETTO, Mezza luna piena (Bar la Muerte / Bosco Rec, 2005)

Anni fa, quando Francesco De Gregori era ancora un cantautore con la C maiuscola, scrisse in una ballata dolente dal titolo “Atlantide” queste parole: “Ora lui vive in California/da sette anni sotto una veranda ad aspettare le nuvole/è diventato un grosso suonatore di chitarre/e stravede per una donna chiamata Lisa”. L’idea che si staglia forte in mente è quella dell’uomo solo, destinato a non essere profeta in patria come da luogo comune, e mi sembra appropriato ripescare questa strofa in occasione dell’uscita di “Mezza luna piena”. Non perché Daniele Brusaschetto c’entri un granché con De Gregori ma perché dopo aver ascoltato l’album sono talmente tanti gli interrogativi che mi pervadono la mente che non so trovare un modo migliore per razionalizzarli e donargli un incipit degno: perché Daniele Brusaschetto è praticamente sconosciuto in Italia? Perché vive in Polonia? Perché ha suonato in giro per il mondo, dal Belgio agli USA, senza che da noi arrivasse un’eco di tali performance? Ma soprattutto, quanti altri sono i Daniele Brusaschetto nascosti nei bar delle nostre cittadine, mascherati talmente bene in altra foggia da non permetterci di riconoscerli?

Lo dico subito, sgombrando il terreno da equivoci: “Mezza luna piena” è un capolavoro, una delle più straordinarie ipotesi cantautoriali che la nostra penisola abbia visto. Basterebbe la forma pop deturpata da sporcature e increspature che dà linfa e vita a “Dicètecelo” per sostenere la mia tesi, ma Daniele non si ferma di certo qui, e poco importa che la sua forma mentis ami riallacciarsi di quando in quando a quella di Franco Battiato. Non sarebbe il primo, dopotutto, e non sarà l’ultimo; ma la rilettura, o meglio, il riconoscimento di Battiato diventa l’occasione per Brusaschetto di lanciarsi in ipotesi talmente personali da lasciare a bocca aperta (la coda folle di “Vita sulla terra”, ad esempio). La rosa dei venti della sua ispirazione è aperta a ogni influenza, e la techno più grezza e ossessiva arriva a sposarsi con delicatezze acustiche senza problema alcuno, come in “Nuovi operai”.

E proprio questo brano mi dà il la per lanciarmi in un elogio delle liriche di Brusaschetto, ispirate come poche attualmente mi sia capitato di leggere/ascoltare in giro: chi si è permesso, da anni a questa parte, di scrivere parole come “Nuovi operai tagliano il cielo grigio sempre e comunque, in cerca di niente. Vanno e vengono intervalli silenti taciti, diurni-notturni, confusi al vivere”? Eppure non è solo nella capacità di mescolare elementi in antitesi e di dedicarsi alla bella scrittura che risiede la grandezza di questo nome “nuovo” (ha senso usare questo termine per uno che fa musica da quindici anni?) del panorama italiano, e “Ciao bellissima”, eterea e lineare creatura pop, è lì a dimostrarlo. Battiato torna a farsi preponderante punto di ispirazione in “Criptico” – ma l’esplosione di chitarre come al solito serve a sviare i sospetti, e in fondo a far comprendere l’ironia alla base del tutto -, e l’album si chiude sulla magia strumentale “Stella stellina” (solo ora mi accorgo, a tremila e passa caratteri word dall’inizio di questa recensione, dell’involontario rimando a De Gregori…), carica di una dolcezza tale da lasciare che tutti i rumori, tutte le sporcizie, tutto ciò che di fragoroso era prima venga ora lavato e purificato.

Non so quanti acquisteranno l’ultimo lavoro di Daniele Brusaschetto ma posso dirvi che se esistesse un metodo di coercizione lo userei senza alcun ripensamento: perché, se si ama veramente la musica, non si può lasciare che questo nome rimanga recluso in una camera. Magari splendida, ma in cui possono entrare troppe poche persone per volta.

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